Dal sito Carmilla (carmillaonline.com) riprendiamo integralmente l’intervento di Giorgio Cremaschi pubblicato domenica 22 aprile 2018.
di Giorgio Cremaschi
L’articolo 36 della Costituzione recita: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Può sembrare un concetto scontato, ma non lo è. La nostra Costituzione afferma che la retribuzione secondo quantità e qualità del lavoro-produttività e merito avviene solo DOPO che al lavoratore sia stato garantito il salario adeguato a una vita libera e dignitosa. Questo vuol dire quel: “in ogni caso”. Dunque la retribuzione che fa vivere dignitosamente non dovrebbe mai essere messa in discussione, merito e produttività dovrebbero essere premiati con un di più. Se un lavoratore non fa il suo dovere ci potrebbero essere provvedimenti disciplinari, ma la sua paga non dovrebbe diventare un cottimo, né tanto meno un bonus. La retribuzione costituzionale non dovrebbe essere compressa nel nome del mercato e del profitto.
Abbiamo usato il condizionale perché, come tanti altri articoli della prima parte della nostra Carta, anche l’articolo 36 oggi è lettera morta. Con la precarizzazione, con lo sfruttamento schiavistico e con il lavoro gratis, a cui oggi prepara la scuola con l’infamia dell’alternanza scuola lavoro, ci sono milioni di lavoratrici e lavoratori che la “retribuzione sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa” non la vedono neanche da lontano.
L’articolo 36 è stato spesso evocato in tribunale nelle cause dei lavoratori sottopagati, per affermare il loro diritto ad una giusta retribuzione. E non essendoci in Italia un salario minimo di legge, la magistratura normalmente ha considerato come riferimento salariale quanto stabilito dai contratti nazionali. Quindi il contratto nazionale nel nostro sistema ha assunto il valore di livello minimo che deve essere garantito, a cui possono e debbono aspirare tutti i lavoratori. Il salario costituzionale nel nostro sistema è quello dei contratti nazionali.
Cosa avviene però se gli stessi contratti programmano la riduzione del potere d’acquisto dei salari? Succede che il salario abbandona la Costituzione e che la retribuzione lì prevista diventa irraggiungibile per la grande maggioranza del lavoro dipendente, anche per quello assunto a tempo indeterminato.
Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi.
Per i privati va meglio? Neanche per sogno.
L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil Cisl Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.
L’accordo interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa. A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro mensili.
Si crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la situazione cambia. Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte inferiori.
In sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna collaborazione con l’impresa!
Ci sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a fare il loro mestiere.
I metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure i vertici della UE avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno.
Cgil Cisl Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro, di questo si occuperanno davvero.
Alla firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del PD, partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo stato, con le parole della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri dipendenti. Il fiscal compact e il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente si fanno contratto.
È il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di Cgil Cisl Uil.
La ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.