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Intervento di Luciano Vasapollo e Rita Martufi al Congresso USB 2013


Riaprire il dibattito nel movimento internazionale dei lavoratori sull’uscita dall’Europolo per superamento del capitalismo.

L’Europa imperialista dei padroni e dei banchieri nella crisi sistemica.
Luciano Vasapollo e Rita Martufi

1. L’ attuale crisi sistemica nella competizione globale

La crisi economica del capitale internazionale, che sta manifestando la sua profondità in questi ultimi anni, ma che origina dai primi anni ’70 come crisi generale di accumulazione, è stata da noi identificata in vari lavori già da oltre quindici anni come crisi sistemica; pertanto è diversa dalle “normali” crisi in cui si dispiega il modo di produzione capitalista (MPC) proprio a partire dalla sua condizione intrinseca di disequilibrio.

Va sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché la strutturalità e globalità della crisi rende evidente la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo. E’ chiara l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive in esubero”, siano esse forza lavoro o capitale come esplicitazione di forma di lavoro anticipato; non vi sono più le condizioni per ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia dare la “giusta” redditività agli investimenti e quindi creare possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche attraverso il cambiamento del modello di produzione.

Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di quelle di natura più strutturale, ma si va configurando sempre più un carattere di crisi sistemica accompagnata da crisi globale. Ciò perché le stesse relazioni di produzione entrano in conflitto con carattere endemico, distruggendo per la prima volta anche la stessa forzata convivenza padrone –lavoratore.

Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di quelle di natura più strutturale, ma si va configurando sempre più un carattere di crisi globale accompagnata da crisi sistemica. Ciò perché le stesse relazioni di produzione entrano in conflitto con carattere endemico, distruggendo per la prima volta anche la stessa forzata convivenza padrone –lavoratore.

Indipendentemente dal fatto che la sua profondità si sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi sistemi bancari, da sempre abbiamo avvisato che non si trattava della classica crisi finanziaria, poiché in tale “normale” situazione non si interrompono i processi internazionali di accumulazione del capitale.

Si cerca così di far sopravvivere alla meglio il MPC intensificando la sostituzione della funzione del capitale produttivo con la finanziarizzazione, le delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di produzione con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso ricattatorio della forza lavoro immigrata per espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.

Può anche avvenire che la crisi finanziaria si accompagni a un radicale mutamento del modello di accumulazione capitalista e l’annesso sistema produttivo; ciò è avvenuto probabilmente solo in un caso nel 1929, determinando radicali cambiamenti politico-istituzionali che si associano alla definizione di un diverso modello di produzione e di sviluppo. Ed ecco che in questo caso la crisi assume connotati di strutturalità e può nascere un nuovo modello di accumulazione capitalista, come è avvenuto nel dopo ’29 con la complessità del modello keynesiano nelle sue diverse forme ed esplicitazioni.

 

2.Finanziarizzazione e indebitamento: la maschera della crisi

 

Se l’attuale crisi del capitale viene da lontano e mostra la sua strutturalità, e poi il carattere del tutto sistemico, già dai primi anni ’70, con una tendenza al ristagno con forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate da continui processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, è proprio in questi quaranta anni che al contempo si evidenzia una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie. Queste ultime hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, pubblico e privato , abbiano di fatto in qualche modo garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale.

E’ per questo che in uno sporco gioco massmediatico si vuol far credere che l’attuale crisi sia di natura finanziaria e dovuta ad una eccessiva liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, che ha provocato bolle speculative, finanziarie e immobiliari, la sostituzione dei profitti del capitale produttivo “buono” ai guadagni del capitale finanziario “ cattivo”, con l’eccesso di rendite finanziarie, immobiliari e di posizione.

Ciò avrebbe influito notevolmente al cambiamento redistributivo del PIL fra capitale e lavoro, avvantaggiando però le forme retributive del capitale finanziario, quali gli interessi e le rendite, senza incrementare di fatto in termini generali i dividendi non ripartiti e l’autofinanziamento proprio e improprio.

Si vanno riducendo così le capacità delle imprese ad effettuare investimenti in capitale proprio, favorendo, invece, i processi di indebitamento, il tutto intaccando le capacità generali del processo di accumulazione capitalistico.

Scoppiate le bolle speculative, finanziarie e immobiliari, crollati i prezzi degli attivi finanziari del capitale fittizio con le conseguenti varie situazioni di insolvenza bancaria, si sono andate evidenziando le diverse crisi regionali, come ad esempio quella del Giappone nel 1992, nel Messico nel 1995, le tigri asiatiche nel 1997, la Russia nel 1998 ecc.; fino a quella del 2007, che viene erroneamente definita la crisi finanziaria degli Stati Uniti e che nel 2008, attraverso l’articolazione del sistema bancario internazionale, colpisce tutti i paesi a capitalismo maturo e non solo. Il nuovo ruolo delle banche ridà ossigeno al sistema finanziario e mette in mano l’intera economia al “maledetto” gioco delle multinazionali e transazionali private; il tutto con il denaro da imposte e tasse gravante soprattutto sui lavoratori che in contropartita avranno solo ciò che da tanti anni abbiamo definito “Welfare dei miserabili”.

Tutto ciò farebbe pensare alla scelta della finanziarizzazione dell’economia come un processo momentaneo di riassestamento del capitale internazionale, mentre si tratta effettivamente di un illusorio tentativo di uscita dalla iniziale configurazione della crisi strutturale, prendendo atto dell’incapacità e impossibilità del rilancio di un nuovo modello di accumulazione capitalista attraverso la possibilità di cambiamento del modello di produzione.

L’indebitamento generalizzato è parte di questa prospettiva finanziaria, che si è affermata con un lungo ciclo di bassi tassi di interesse, accompagnato da forme selvagge di deregolamentazione e con il ruolo centrale degli organismi internazionali, in particolare l’FMI che ha sostenuto un sistema di pagamenti internazionali in grado di garantire la continuazione di una voluta condizione di squilibrio, nella quale all’incredibile indebitamento statunitense potesse sopperire l’enorme surplus di Giappone, Germania e Cina.

E’ ovvio che una tale struttura dei pagamenti internazionali immette nel sistema una gigantesca concentrazione di liquidità detenuta dalle multinazionali e gestita dalle grandi banche e dalle grandi società finanziarie. Tali eccessi di liquidità sono stati incanalati nel sistema finanziario contraendo ancor più fortemente gli investimenti produttivi, riducendo così la capacità di reddito dei lavoratori. Tant’è che ormai dall’OCSE, e da molti altri organismi internazionali, viene evidenziato che gli ultimi 30 anni si è ridotta di oltre il 10% la partecipazione al PIL dei redditi da lavoro nel complesso dei paesi a capitalismo maturo con un corrispondente aumento dei redditi da capitale, quindi della massa del plusvalore; a ciò non si accompagna un equivalente sviluppo della produttività del capitale ma tutto va chiaramente letto attraverso un inversione strutturale nella redistribuzione dei redditi.

E’ proprio l’OCSE che evidenzia che tra il 1993 e il 2008 il numero dei lavoratori salariati è aumentato del 20% ( appunto nei paesi OCSE) e i redditi complessivi da lavoro sono aumentati di meno del 10%, mentre i consumi e gli investimenti non produttivi dei capitalisti nello stesso periodo sono aumentati del 211%.

Quindi tale liquidità in eccesso deriva proprio dalla modifica strutturale della redistribuzione del PIL ai redditi da lavoro e capitale, a forte vantaggio di quest’ultimo già a partire dagli anni ’80; a ciò va anche aggiunto che gli incrementi di produttività del lavoro degli ultimi 25 anni sono stati redistribuiti solo in piccola parte al monte salari complessivo; e in ultimo tale accumulazione di liquidità è stata dovuta anche ai processi di centralizzazione del capitale con fusioni, incorporazioni, liquidazioni, più o meno veri fallimenti e chiusure di imprese, che hanno ingigantito l’esercito dei disoccupati e dei precari.

 

3. Nuovi soggetti dell’indebitamento.

 

Tale processo parte da lontano, già dai primi anni ’70, quando la crisi internazionale d’accumulazione assume caratteri così fortemente strutturali, e poi pienamente sistemici, da far sì che il capitale internazionale scelga di finanziarizzare le economie; ciò prende particolare slancio già nei primi anni ’80 marginalizzando di fatto il ruolo delle banche commerciali.

Ecco il contesto nel quale a partire dal 2009 si scatena la crisi del debito sovrano e delle connesse politiche pubbliche e governo dell’economia, che hanno visto l’emorragia del denaro pubblico; ad esempio con gli Stati Uniti che immediatamente hanno speso oltre 2.500 miliardi di dollari per intervenire a sostegno del loro sistema finanziario (con operazioni di ripristino di liquidità, intervento sulla solvibilità bancaria, garanzie, bonifica degli attivi finanziari di cattiva qualità, con spese in finanziamenti diretti sul capitale azionario di banche e finanziarie sull’orlo del fallimento, ecc.); con la Gran Bretagna che per le stesse operazioni ha impiegato oltre 1000 miliardi di dollari.

In realtà in termini quantitativi la questione del debito pubblico occupa una parte quasi secondaria rispetto ai problemi generali del debito estero complessivo; ad esempio nell’Eurozona il debito estero sovrano rappresenta circa il 45% del PIL mentre il debito bancario privato, quasi tutto a breve termine, equivale a circa il 90% del PIL.

E’ la Grecia che ha evidenziato un debito estero sovrano fuori media e particolarmente ingente, poiché per esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna il debito estero privato di impresa (comprensiva del debito intrafirm) è superiore al debito sovrano dei paesi dell’Eurozona.

Con la finanziarizzazione dell’economia, e quindi con la messa a rendita dei profitti e con la compressione del monte salari complessivo, il modello precedente, chiamiamolo dell’era della crescita, viene a cadere e anzi si inverte il ruolo degli operatori economici.

La riduzione del monte salari complessivo nella redistribuzione del PIL ne diminuisce ovviamente la capacità di acquisto e la propensione al risparmio, tramutando l’operatore famiglia, quindi i lavoratori, da risparmiatori creditori a consumatori poveri indebitati, con l’aumento delle mille forme di ricorso al debito per sostenere i consumi anche di prima necessità.

Allo stesso tempo, la sempre più evidente redistribuzione del valore aggiunto ai redditi da capitale, e la trasformazione dei profitti in rendite, disincentiva di fatto la propensione all’investimento produttivo, anche per la diminuita propensione al consumo delle famiglie e anche perchè l’aumentata incorporazione di profitti rende meno importante e strategicamente rilevante il ricorso all’indebitamento d’impresa.

Si viene, così, a configurare un nuovo equilibrio fra soggetti economici nel quale l’operatore famiglia e, quindi, i lavoratori sono coloro che più ricorrono al debito e quindi ai prestiti bancari e delle società finanziarie; l’operatore impresa, invece, diventa il nuovo soggetto risparmiatore che indirizza le sue risorse in continuazione alla speculazione finanziaria; mentre il sistema bancario indirizza i grandi flussi di liquidità provenienti dalla speculazione finanziaria non più ai crediti alla produzione ma si trasforma in erogatore di prestiti al consumo. Tutto ciò realizza un forte indebitamento dell’operatore famiglia e dall’altra parte un blocco strutturale nei processi di accumulazione del capitale che porta a indirizzare l’aumento nella redistribuzione ai redditi da capitale verso la realizzazione di rendite finanziarie1.

Se si considera che nel 2008 le rendite da capitale superavano l’1,7 miliardi di euro, mentre nei paesi OCSE l’investimento totale privato in capitale fisso per lo stesso anno è stato di 8 miliardi di euro, si comprende in maniera chiara quanto le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, hanno sottratto le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse.

In tutti i casi, e ciò vale per l’Italia e per tutti gli altri paesi dell’area, la costruzione dell’Europa di Maastrich, con l’imposizione dei suoi parametri di sostenibilità in cui fondamentali sono il mantenimento di un basso deficit fiscale e di un basso debito pubblico , hanno fatto sì che l’operatore Pubblica Amministrazione , in questo caso cioè lo Stato, abbia tentato di ridurre l’offerta complessiva di titoli del debito pubblico contraendo così ulteriormente le possibilità di creare reddito aggiuntivo per le famiglie attraverso appetibili interessi.

Sono quindi le banche che realizzano la maggior parte delle transazioni nei mercati dei prodotti finanziari derivati; sono le banche e i fondi pensione e di investimento i maggiori speculatori, e la crisi finanziaria non ha affatto rallentato le transazioni su questi mercati ma le ha moltiplicate in maniera frenetica. Ad esempio sono state le banche in Europa che con la forte riduzione dei tassi di interesse hanno finanziato la bolla speculativa dei prezzi degli immobili; sono le banche che hanno chiuso l’accesso al credito per le imprese e rendendolo sempre più oneroso per le famiglie.

Ma guarda caso sono le banche che hanno ricevuto gli aiuti pubblici dal keynesismo “privato statale”, gli aiuti fiscali, perfino beneficiando del carry trade, cioè hanno ottenuto denaro dalle banche centrali a meno dell’1% di tasso di interesse per poi ricomprare i titoli del debito pubblico a più o meno il 5%; e la Banca Centrale Europea non comprerà debito pubblico ma accetta dalle banche private i titoli del debito pubblico per farle continuare a ricevere liquidità e così comprare debito pubblico.

Si invertono, così, i comportamenti e il ruolo del ciclo espansivo keynesiano; infatti in tale costruzione, che si rifà proprio al modello teorico di equilibrio della contabilità nazionale keynesiana, il ruolo dell’operatore bancario è quello di intermediare fra l’operatore famiglia, che ha come suo obiettivo istituzionale quello di realizzare consumo e risparmio, mentre l’operatore impresa, in quanto dedito all’attività produttiva deve sostenerla con l’autofinanziamento ma soprattutto con l’indebitamento.

In questo contesto il modello di keynesismo sociale gioca un ruolo di ammortizzatore nel conflitto capitale-lavoro, poiché atto a redistribuire redditi (quindi valore aggiunto e per aggregazione PIL) ai lavoratori, grazie alla forza espressa dal grande ciclo di lotte vincenti degli anni ’50 e ’60, così i lavoratori conquistano maggiore capacità di acquisto e quindi una forte propensione al consumo sorretta dai propri salari; con tale alta capacità di acquisto si riesce addirittura a creare fonti abbondanti di risparmio da destinare attraverso l’intermediazione bancaria, a colpire l’indebitamento di impresa per effettuare investimenti e quindi sostenere il ciclo di accumulazione del capitale.

 

 

4. Debito sovrano e keynesismo del privato

 

La chiusura del ciclo speculativo dell’estate 2007, con il connesso crollo del mercato del credito mondiale ha portato ad un rigenerato interventismo degli Stati dei paesi a capitalismo maturo, indirizzato però non al rilancio della produttività nell’economia reale, ma al salvataggio del sistema bancario e finanziario.

Tali operazioni, che puntano a ridare ossigeno alle banche, innalzano pesantemente il deficit fiscale dei paesi centrali, sia per l’entità delle somme impiegate (la Commissione Europea indica che nel 2009 i paesi dell’Unione Europea si sono letteralmente giocati il potenziale di circa un terzo del loro PIL nell’aiuto delle banche in crisi, considerando complessivamente le immissioni di capitale, le garanzie per le banche e il ripristino di liquidità e la bonifica di quegli impieghi finanziari di cattiva qualità) sia per la diminuzione degli introiti fiscali, dovuta alla decelerazione degli investimenti produttivi causati dalla riduzione del credito alla produzione, che di fatto blocca i processi di crescita dell’accumulazione capitalista.

Si tratta in effetti di una gigantesca operazione a favore di banche, sistema finanziario e imprese, per lo più medie e grandi, per trasformare il debito privato in debito pubblico; si porta così la crisi del capitale in una direzione più pesante che è quella relativa alla crisi economica e politica degli Stati sovrani sotto forma di crisi del debito pubblico.

In tal modo il processo di privatizzazione, in atto dall’inizio della fase neoliberista come ulteriore tentativo a occultare gli effetti della crisi di accumulazione del capitale, accompagnata ai processi di finanziarizzazione e di attacco generale al costo del lavoro, vede la sua ultima puntata piegando gli Stati in una crisi di natura fiscale.

Si va così abbattendo definitivamente il ruolo interventista , mediatore e occupatore dello Stato, facendo sì che lo Stato sia presente in economia solo con interessi dichiarati di parte (quello che in vari articoli e libri già dal 1997 chiamiamo Profit State)2; uno Stato che con risorse fortemente carenti deve trasferire fette consistenti di spesa sociale sul privato, le grandi imprese e il sistema bancario e finanziario, cioè sostenendo chi è primo artefice della crisi economica generale.

Si realizza così quello che in varie occasioni abbiamo chiamato il rilancio del keynesismo, il cosiddetto keynesismo del “privato” ( o keynesismo privatistico da opporre al keynesismo sociale) , che in ultima istanza significa la solita via della socializzazione delle perdite. Ciò significa sottrarre fette consistenti di spesa pubblica al salario e al welfare per dare soccorso a quel sistema criminale delle banche, che dopo i disastri provocati vengono sostenute con denaro pubblico, quindi con imposte e tasse sottratti alla spesa sociale e destinati a quell’ultima forma di privatizzazione che è quella del “debito sovrano”. Si tratta semplicemente di incremento del debito pubblico assorbito per il salvataggio del sistema privato di banche e finanziarie.

E’ evidente che è in atto un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali dominati dalle grandi banche e dai fondi pensione e di investimento, per screditare il ruolo dello Stato. E’ la stessa logica un po’ come quando iniziarono i processi di privatizzazione e si dovevano convincere tutti i cittadini che le imprese pubbliche erano parassitarie ed assistite e solo con la privatizzazione si sarebbe raggiunta efficacia ed efficienza; ma la storia economica ha dimostrato il contrario.

Quindi creare nell’opinione pubblica l’idea che gli Stati siano sull’orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro.

Ma se il gioco è così evidente, perché le banche e i mercati finanziari convincono l’opinione pubblica che i due punti deboli dell’economia europea sono l’alto costo del lavoro e il deficit fiscale con il connesso dato di stock del debito pubblico?

Per capire, ciò come abbiamo evidenziato già in nostri scritti di circa quindici anni fa3, bisogna ritornare alle modalità di costruzione del polo imperialista europeo che si è realizzato intorno all’asse franco-tedesco ma in funzione specifica degli interessi della Germania ; non è un caso che i criteri di stabilità facciano riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico, all’inflazione e ai tassi di interesse; cioè tutte variabili che devono essere tenute sotto controllo per favorire le esportazioni.

In pratica salvare l’Unione Europea e quindi salvare il modello di export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità autonome di sviluppo dei paesi europei dell’area mediterranea.

E’ in questo ambito che si scatena la speculazione dei mercati finanziari internazionali sui titoli dei paesi volgarmente chiamati PIIGS, in particolare, in ordine di attuazione, di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, e poi immediatamente dopo l’Italia, poiché ormai le scommesse migliori sono quelle al ribasso proprio sulle obbligazioni di tali economie-paese; ciò rende impossibile ridurre i già molto alti livelli assunti per questi paesi dei rapporti deficit-PIL e debito pubblico –PIL.

I paesi definiti P.I.I.G.S. (maiali) dalla stampa economica britannica, Portogallo-Irlanda-Italia-Grecia-Spagna sono quelli a maggior rischio.

 

5. Debito sovrano: l’interventismo statale per socializzare le perdite

 

E’ chiaro che la crisi del debito sovrano in Europa comporta anche una minore attrattitività negli investimenti esteri e una minore competitività dell’Europa rispetto alle altre potenze mondiali.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che nel 2014 il debito pubblico dell’Europa supererà il 100% in rapporto al PIL, con paesi come la Francia, la Germania e il Regno Unito intorno al 90%.

Si consideri inoltre che continuerà la politica di spostare risorse dei bilanci pubblici per sostenere imprese, banche e finanza, in un contesto in cui la stessa crisi peggiorando le condizioni sociali dovrebbe aumentare la quota di risorse destinate al welfare; che quindi avrà tagli difficili da attuare per non esporsi a vere e proprie ribellioni sociali e costi per la spesa sociale sempre più alti.

Ci si chiede allora: con quali piani di politica economica la Germania vuole essere a capo dell’economia europea a scapito degli altri paesi?

La crisi dei paesi del Sud dell’Europa non sono solo dovuti alla grande esposizione di debito pubblico ma soprattutto derivano dal grave divario produttivo e commerciale che va a favore della Germania.

La Germania quindi si presenta come l’unico paese europeo che continua a crescere e che approfitta della debolezza del resto dei paesi europei e soprattutto di quelli a più alto rischio, i cosiddetti PIGS (se si include l’Irlanda: PIIGS).

Le economie di questi paesi hanno un alto debito pubblico, un deficit di bilancio e poca crescita economica. Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli tali variabili, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i PIIGS, compresa anche la Francia, in quanto l’acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresentano una forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.

D’altra parte operazioni simili avvengono nei mercati finanziari internazionali per risolvere agli Stati Uniti il problema di liquidità necessaria per finanziare un gigantesco deficit della bilancia commerciale dovuto alla fortissima esposizione in importazioni. E in questo caso il sistema di operazioni finanziarie è gestito da banche di investimento USA, svizzere, francesi e tedesche.

E non è certo l’inflazione che può in qualche modo ridurre il peso del debito pubblico, poiché laddove si rendesse “insostenibile” la BCE interverrebbe immediatamente per ridimensionarlo. E’in questo senso che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che l’FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi dell’America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo Monetario Internazionale.

Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico e il debito sovrano ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di “accollare” sullo Stato la critica feroce dell’opinione pubblica e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e quindi tagliano salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo alle capacità di acquisto di lavoratori e pensionati.

Ma le politiche di strozzinaggio in chiave europea non necessariamente possono funzionare in tutta la loro capacità espansiva poiché oggi anche nei paesi a capitalismo maturo la produttività è stagnante da oltre 35 anni, facendo sì che l’accumulazione di capitale, con l’annessa produzione fordista, si sia spostata nei paesi delle semiperiferia e periferia in particolare dell’Asia Orientale dell’America Latina.

 

6. “Maiali” per che cosa?

 

La prospettiva futura non può prevedere altro che una crescita forte dell’indebitamento dei paesi a capitalismo maturo per tentare così di mantenere i propri livelli di vita. La nuova struttura della divisione internazionale del lavoro porterà ad un gioco al domino finanziario del debito in cui ad esempio i nuovi paesi emergenti del blocco cosiddetto BRICS (Brasile, Russia, India e Cina) continueranno a comprare titoli occidentali aumentando la concorrenza tra euro e dollaro e se solo tali paesi decideranno di diversificare il loro possesso titoli pubblici si determinerà un riassetto definitivo del risparmio e delle riserve mondiali inasprendo la competizione internazionale. E in ciò si consideri che molti pensano ormai ad una strutturazione del debito non sui singoli paesi europei ma per un complessivo debito sovrano europeo, che si dice possa portare maggiore stabilità , crescita e una struttura e ruolo politico all’Unione Europea.

Ma si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il falso problema che l’Europa in generale è un sistema in deficit mentre invece risulta chiaro l’opposto cioè l’assenza di un debito estero europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri paesi fortemente indebitati. E’ altresì vero che le banche tedesche che detengono tali titoli del debito, insieme ai mutui subprime statunitensi ed i titoli speculativi immobiliari fanno sì che il potenziale crediti sia in parte sostanziale probabilmente inesigibile. Ecco perché la Germania continua a mantenere prezzi e salari moderati in termini relativi per favorire il proprio modello di sviluppo basato sull’export tentando di aggredire i partner con un rilancio delle esportazioni extraeuropee. Ma Cina e USA non stanno certo lì ad aspettare in un ruolo passivo di osservatori; la guerra continua!

Ma chi compra il debito sovrano degli Stati, in particolare dei PIIGS?

La Cina è uno dei paesi che sta comprando il debito europeo, ne possiede già oltre il 7% ed è intenzionata ad acquistare ancora altri titoli di Stato europei.

Ma perchè la Cina è interessata al debito europeo? Innanzitutto si ricorda che la Cina detiene gran parte del debito degli Stati Uniti avendo investito in bond americani ed è quindi interessata a diversificare il proprio portafoglio ; in secondo luogo va detto che il debito dei paesi in crisi Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, e anche dell’Italia (i PIIGS) ha un alto rendimento e i cinesi comprando il loro debito pubblico ha diversi effetti positivi:

a) se questi paesi riescono a rimborsare il loro debito i cinesi hanno comunque avuto un alto rendimento dal loro acquisto;

b) acquistando il debito di questi paesi i cinesi hanno la possibilità di migliorare i propri commerci come è avvenuto ad esempio in Grecia, paese in cui i cinesi si sono garantiti gli impianti portuali (l’uso del Porto del Pireo) che saranno utilissimi per il commercio);

c) se comprano il debito europeo i cinesi accrescono la domanda di euro considerando che il cambio tra dollaro e yuan è prestabilito:

d) comunque vada i cinesi sono riusciti a diversificare le proprie riserve di valuta.

 

E in ogni caso dall’inizio della crisi subprime ad oggi la Cina è l’unica potenza che si è rafforzata economicamente e che potrebbe nel 2014 dettare le proprie condizioni all’economia mondiale, diversificando ulteriormente il proprio portafoglio valuta in dollari ed euro e giocando così un ruolo prioritario nella scacchiera internazionale del mercato delle valute e del commercio.

 

 

7. Le strategie a perdere dei keynesiani di sinistra

 

In questo quadro di accentuata competizione globale sembrano prevalere tre strategie europee di uscita dalla crisi.

La prima è la ricetta tedesca, il massacro sociale della Troika verso quella che considerano la periferia europea; tale ricetta che punta alla destrutturazione del mercato del lavoro a maggiore austerità e maggiore liberalizzazione riducendo le forme anche di protezione sociale. In questo senso le politiche di aggiustamento strutturale in chiave europea hanno come unico obiettivo quello di salvare banche, imprese private e mercato, attraverso un indebitamento pubblico sempre crescente che vede poi come sua cura la privatizzazione dei servizi pubblici di base per creare un nuovo spazio di accumulazione attraverso la nuova catena del valore che si realizza proprio sulle privatizzazioni dei servizi sociali profitti e rendite finanziarie e di posizione.

Quindi un’idea di stabilità dentro i rigidi parametri europei imposti dalla Germania favorendo i processi recessivi con un forte condizionamento negativo sul mondo del lavoro, in termini di costi di specializzazione e di diritti. Ma c’è da dire che ciò sta provocando un impatto negativo sulla produttività favorendo quelle imprese meno produttive che utilizzano manodopera a basso costo e perdendo capacità in termini di innovazione tecnologica.

L’ipotesi lanciata dal manifesto spagnolo a maggio 2013, somiglia in parte decisiva, a quella proposta lanciata da tempo più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica che auspicano la creazione di un “secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività. Questa strategia radicale di fuoriuscita dall’”euro 1”, prevedendo al limite anche il ritorno alle vecchie monete nazionali, richiamandosi ad una improponibile e allo stato dei processi di globalizzazione ormai incompatibile, sovranità monetaria ed economica nazionale, ipotesi inoltre oggi insostenibile economicamente e finanziariamente nell’ambito dell’attuale fase della mondializzazione finanziaria del capitale.

E’ una proposta in pratica priva di reali possibilità attuative sia per le forti pressioni protezionistiche sia per una sicura connessa fuga dei capitali e quindi condizioni che abbasserebbero le capacità di investimento interno al sistema europeo.

La ultima ipotesi è quella della sinistra europea, anche di quella cosiddetta radicale e di alternativa, che partendo da una ipotesi di analisi della crisi come sottoconsumistica, ripropone una nuova stagione per le illusioni dei keynesiani di sinistra di superamento della crisi attraverso il sostenimento della domanda e un impossibile rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.

E’ l’ipotesi dell’ “euro2” cioè dell’ “euro buono”.

L’errore di tali keynesiani di sinistra, sta non solo nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico e negando qualsiasi impostazione teorica di origine marxista, ma la loro ipotesi dell’”euro buono” si scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità capitalista. Infatti ecco che si moltiplica in questo senso l’idea di alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili. E per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi pensione, ecc.).

I keynesiani di sinistra, molti nostrani, continuano incredibilmente a dirsi marxisti, nel voler far sopravvivere un cadavere volutamente si dimenticano che non c’è il capitalismo “buono” e che la crisi del capitale è sistemica” perché sempre più ampia è la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a capitalismo maturo. I nuovi soggetti del lavoro, del non lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale ed economica nella società del capitale.

 

8. Rilanciare il conflitto di classe dal basso,riaprire il dibattito sull’uscita dall’Europolo per superamento del capitalismo

L’euro è stata una decisione di difesa destinata a facilitare la continuità del mercato unico europeo nel contesto di una globalizzazione finanziaria imposta dal potere istituzionale degli Stati Uniti. Le politiche di aggiustamento sono la ricetta del capitale finanziario per caricare tutto il costo della crisi sui debitori, a beneficio dei creditori. Le privatizzazioni e i tagli nel settore pubblico, sono la risposta alle domande del grande capitale produttivo che reclama nuove fonti di ottenimento di plusvalore e profitto. I lavoratori, il cui potere è diminuito dal periodo delle grandi lotte degli anni ’70, sono quelli che pagano i costi della crisi, nella loro doppia condizione di produttori di valore e consumatori di servizi pubblici.

Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia, a partire dalla centralità della pianificazione socio-economica.

Non esiste nessun argomento teorico che giustifichi il pensiero per cui il sistema capitalista sia l’ultima tappa nell’evoluzione della socializzazione umana, tra le altre cose perché per molti aspetti è una regressione rispetto a sistemi precedenti; mai come con il capitalismo è stata messa in discussione la stessa sopravvivenza della specie umana, sia dalla tecnica (le uniche bombe atomiche che hanno ucciso moltissime vite sono state sganciate da un paese capitalista) che dalla distruzione dell’ecosistema (molto grave con un sistema che valorizza solo ciò che ha un prezzo, ossia, ciò di cui si appropria in forma privata, ignorando il costo dell’ampio consumo di beni naturali non rinnovabili).

Da un punto di vista logico ed ideologico, esistono varie alternative possibili alla attuale competizione globale e poi fino alla più strategica determinazione del superamento del modo di produzione capitalista, ognuna con distinti gradi di probabilità in funzione di ragioni tecnico-economiche o politico-sociali. In ogni caso, qualsiasi proposta attuabile dovrà “fare i conti”, in primo luogo nell’individuare i soggetti, il blocco sociale, con i quali avanzare fino alla costruzione di una alternativa non capitalista, e da subito con il rapporto fra classe del lavoro e la tecnologia.

Anche questo fa parte del dibattito che dovrà inaugurarsi tra tutti i lavoratori e gli intellettuali militanti e organici alla classe dei lavoratori le società per orientarsi nel cambio tecnico in funzione del progresso tecnico. E in tutto ciò necessita un progetto pianificato centrale fiscale che sappia redistribuire indirizzando le risorse a investimenti in tecnologie a forte compatibilità ambientale e sociale per una dimensione socio-ecologica dello sviluppo a sostenibilità qualitativa.

Il superamento del capitalismo è una questione indubbiamente aperta. Utilizzando il termine “superare”, diamo per scontato il nostro orientamento verso principi etici e morali: è possibile intravedere un ordine sociale non capitalista che permetta il miglioramento delle condizioni di vita della gente e aumenti il benessere e la felicità?

Questa domanda esige una risposta a due questioni: è necessario superare il capitalismo? È possibile farlo?

Premesso che si pone ormai come inderogabile incanalare la ricerca scientifica e il dibattito politico-economico verso problematiche, modalità di scelta di teorie indirizzate da pratiche di lotta sociale capaci di stimolare processi decisori politico-economici che collochino come centrale la costruzione di un diverso modello di sviluppo che si ponga immediatamente su un terreno qualitativo fuori mercato, si possono da subito sviluppare temi di riflessione e di ricerca e di un programma minimo di controtendenza per riforme di struttura che almeno realizzino ipotesi di controtendenza rispetto alla scelta di sviluppo dello Stato-Impresa.

Va rilevato allora che, già da subito, a maggior ragione per dare un senso socio-economico alla costruzione di economie fuori mercato a compatibilità socio-ambientale, è necessario effettuare delle scelte strategiche di politica economica generale che operino congiuntamente sulle emergenze sociali come quelle dell’occupazione e della salvaguardia ambientale.

Da un punto di vista teorico è possibile concepire un sistema nel quale la divisione del lavoro si stabilisca attraverso un sistema di relazioni orizzontali, basato su atti di reciprocità; dove il mercato non faccia a meno della gratuità e dove il conflitto non sia basato sulla dicotomia possesso/non possesso. Questo significa che qualsiasi siano le forme di un sistema post-capitalista, per rappresentare un avanzamento sociale e umano dovrà colmare la separazione capitalista tra l’economia e la politica, la quale permette soltanto a pochi privilegiati di passare da una regione all’altra come cittadini. Per questo, la democrazia partecipativa, politica ed economica è una dimensione chiave di qualsiasi progetto del futuro post-capitalista.

Richieste di miglioramento sociale, ma anche di ampliamento degli spazi di decisione democratica partecipativa, per inaugurare la fase della trasformazione tecnologica, le decisioni di produrre e distribuire sotto il controllo di tutti i lavoratori; decisioni subordinate ad un processo politico e sociale di discussione sul ruolo che devono occupare le macchine e la scienza nelle nostre vite. E’ inaccettabile che l’avanzamento tecnologico, invece che liberare l’umanità dal lavoro pesante, provochi la disoccupazione; invece di migliorare la qualità di vita, provochi nuove forme di inquinamento, invece di incrementare il sapere globale, sequestri la conoscenza nascondendola tra il muro dei brevetti e i diritti di proprietà.

Se le nuove richieste si dirigono verso lo spazio di produzione e distribuzione della ricchezza sociale, prima o poi si concretizzeranno in una strategia di rottura con lo stesso capitalismo.

La crisi è sistemica perché sempre più ampia è la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a capitalismo maturo; al punto che i nuovi soggetti del lavoro , del non lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale ed economica nella società del capitale. Vengono cioè meno le stesse mediazioni motivazionali del soggetto di classe del lavoro, anche se la sua ribellione contro la società del capitale assume forma fuori dall’organizzazione di classe nelle mille modalità del disagio giovanile, dell’illegalità metropolitana, del suicidio attraverso l’uso delle droghe, delle rivolte contadine in Asia e in America Latina, delle “follie “ stragiste dell’insoddisfazione del vivere.

La fine del rapporto sociale schiavo-padrone evidenzia ancor più una crisi sistemica, poichè ne colpisce gli stessi elementi di convivenza sociale e civiltà.

E’ una crisi irreversibile per il capitale internazionale che va al di là dell’esaurimento di un modello di accumulazione capitalista, come è successo nel ’29, che nel provocare una profonda rottura anche in termini di relazioni politiche apre grandi possibilità di cambiamento non al semplice modello di produzione ma alle stesse prospettive generali dell’umanità, poiché si rompe definitivamente l’aspirazione alla relazione e al divenire altro soggetto di classe.

I principi ispiratori di un diverso paradigma politico-economico a carattere socio-ambientale si lega indissolubilmente ad un nuovo modello di progresso sociale che possa partire dalle linee di un programma minimo di fase che riguardano certamente la prevenzione e il miglioramento della performance ambientale d’impresa, ma mettano al centro del dibattito non la crescita economico-produttiva, ma la crescita della valenza sociale del vivere collettivo. Questi principi fanno riferimento non alle priorità aziendali ma alle priorità sociali, al miglioramento continuo della qualità della vita, alla formazione dei saperi non incentrata sulle logiche di competitività di un nuovo darwinismo economico, ma alla valutazione preventiva degli impatti socio-ambientali, dei prodotti e dei servizi orientati a una nuova qualità dei bisogni. Si dichiara la necessità di un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica, come già si sta sperimentando, ad esempio nei paesi dell’area dell’ALBA, e in particolare in Bolivia dove i movimenti sociali, di indios, i contadini, i minatori hanno determinato nuove forme di economia plurale e solidale attraverso lo strumento politico della democrazia partecipativa.

Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di tale rottura politico-economico-sociale una politica orientata in favore dei lavoratori; contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di una pianificazione economica per uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo per l’insieme della popolazione della nuova area monetaria ALIAS, un’ALBA euro-afro-mediterranea.

È importante riflettere sulle possibilità di gestione di una economia nazionale europea altamente indebitata con l’estero dopo l’abbandono dell’euro (Che succede con i debiti in euro? Fino a quanto si alzeranno i tassi di interesse nazionali e l’inflazione? Come organizzare il neosistema finanziario nazionale e l’interazione con il sistema europeo dei pagamenti?).

Però la risposta a questi interrogativi dipende da come viene gestita la capacità politica di combattere gli interessi associati dei capitali finanziari e produttivi europei e statunitensi. Alla fine, l’euro e la rottura del polo imperialista fondato sull’euro è una questione politica.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di pianificazione a compatibilità socio-economica con forme di investimento sociale e di accumulazione favorevole ai lavoratori.

L’uscita dall’euro dovrebbe realizzarsi in forma concertata, in primo luogo tra i paesi della periferia mediterranea con quattro momenti intimamente relazionati senza i quali tale processo potrebbe risultare un disastro per tutti.

I quattro momenti sono: a) La determinazione di una nuova moneta comune (a titolo esemplificativo potremmo chiamare questa moneta “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro) all’Europa mediterranea; b) La rideterminazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica (a titolo esemplificativo tale area la potremmo chiamare ALIAS – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale) relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e azzeramento almeno di una parte consistente del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie, e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa.

Tutti questi elementi si devono però realizzare simultaneamente, per evitare la decapitalizzazione dell’intera regione periferica e per assumere un controllo adeguato sulle risorse disponibili per gli investimenti (una risposta simile a questa è quella difesa da Costas Lapavitsas e dal gruppo di ricerca sulla moneta e sulla finanza il “Eurozone Crisis: Beggar Thyself and Thi neighbour” marzo 2010 e in “The eurozone between austerity and default” settembre 2010 consultabile su www.researchonmoneyandfinance.org).

 

9. Rompere l’Unione Europea , costruire l’ALBA euro-afro-mediterranea

In questo contesto, un programma per superare la crisi della Eurozona a beneficio dei lavoratori può arrivare solo grazie ad una importante accumulazione delle forze che doti di maggior potere il movimento di classe dei lavoratori europei.

Bisogna avere a disposizione una proposta alternativa all’Unione Monetaria subordinata ad una globalizzazione finanziaria imposta dal dominio mondiale del capitale statunitense. E una proposta alternativa al mercato unico creato in funzione degli interessi del capitale europeo. Per questa ragione, il dibattito sull’euro sta discutendo la costruzione di una alternativa al caos economico e sociale generato dalle politiche di gestione della crisi dell’UE.

I Paesi della periferia europea necessitano di un sistema monetario e finanziario alternativo all’euro e alla globalizzazione. Però non si può concepire un sistema di questo tipo nell’ambito del mercato unico neoliberista tale come è stato costruito nei Trattati europei. Le regole di funzionamento di questo mercato impediscono una soluzione che apporti stabilità al processo di accumulazione, almeno nel senso che s’intende per “stabilità” sotto il sistema capitalista, cioè un periodo relativamente lungo di crescita nel quale si susseguono cicli successivi di espansione e di contrazione economica.
Per tutto questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale del tutto differente da quella perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal mercato unico.

Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.

E’ altresì importante che il cambiamento del sistema monetario e finanziario sia una risposta congiunta, poiché il peso della periferia europea mediterranea è molto superiore a quello dei singoli paesi presi separatamente, e la sua capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. La nazionalizzazione di tali settori dovrebbe permettere di realizzare utilità verso usi sociali.

La nazionalizzazione delle banche è la parte più importante del processo generale per uscire dalla finanziarizzazione dell’economia globale, e finché non si sarà realizzato questo obiettivo continuerà il deterioramento della qualità della vita e del lavoro al sol fine di aumentare il tasso di profitto. Rompere la logica del capitale finanziario significa nazionalizzare le decisioni d’investimento per favorire le attività socialmente utili, sottoposte a un criterio di rendimento sociale ed ecologico, che sono criteri di medio e lungo termine.

Il controllo sociale degli investimenti è imprescindibile per dinamicizzare l’attività produttiva, e per orientare il credito in funzione di ottenere il massimo sviluppo dell’occupazione e dell’utilità sociale, e tali funzioni sono fortemente differenti da quelle che applica la banca privata che è orientata al criterio del massimo profitto a breve termine.

La nazionalizzazione delle banche in una situazione di insolvenza e di dipendenza dall’aiuto pubblico è anche un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.

La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile. Questi settori strategici sono le attività produttive che stanno ottenendo maggiori benefici, come risultato della gestione delle risorse naturali non rinnovabili sulla base di una intensa socializzazione dei costi che non vengono imputati come costi interni (i costi di inquinamento, la distruzione di risorse naturali ecc.), o comunque tali settori stanno ottenendo forti risultati positivi perché stanno beneficiando della privatizzazione di reti di comunicazione e tecnologie la maggior parte delle quali si sviluppano con risorse pubbliche.

 

10. Costruire la strategia dell’alternativa di classe per il superamento del modo di produzione capitalista

La competizione globale è sempre più viva e acuta! La crisi è sistemica! La soluzione è solo politica ed è in mano alla soggettività di classe capace di organizzarsi per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista!

 

Le lotte sociali devono animare un dibattito sul netto rifiuto del neoliberismo ed anche e soprattutto sul superamento del sistema capitalista, che già può vantare eccellenti apporti, provenienti dal paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta. La partecipazione o meno a queste lotte e al dibattito che si è aperto sarà la linea di demarcazione della riorganizzazione dello spazio politico tra le forze della sinistra radicale e di quella di classe, con progetti inseriti ancora nella logica capitalista e le nuove strutture sociopolitiche e organizzative alternativamente proiettate rispetto al sistema vigente e quindi in chiave anticapitalista.

Alla fine ciò che affermiamo da tempo in vari nostri libri è che siamo di fronte ad una questione politica, di correlazione delle forze.

Tutto ciò non è e non è stato in passato un mero esercizio teorico ma ha avuto ed ha delle esperienze concrete che rendono tale ipotesi realisticamente praticata e praticabile. Si pensi ad esempi storici dal Kemala ieri, all’ALBA oggi. In tali esperienze, con tutte le possibili diversità si sono affermati modelli di sviluppo autodeterminati , incentrati sulle risorse e le economie locali,l’autodeterminazione valorizzando al contempo le proprie tradizioni culturali e produttive. Si è anche dimostrato che sapendo valorizzare le proprie risorse si può rinunciare a tante merci inutili importate e funzionali ad un sistema di consumismo insostenibile.

Il capitalismo statunitense potrà restare ancora un attore importante ma si realizzerà la fine di un ciclo politico in cui gli USA non avranno una posizione dominante rispetto ad altri centri di potere come l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile, che imporranno, anche se in maniera diversificata, nuove forme di potere politico del capitale, che così come per la natura economica della crisi di cui si è detto in precedenza, entrerà in crisi soltanto se le forze soggettive del movimento operaio e di classe sapranno trasformare la crisi economica e politica in crollo e superamento del sistema di produzione capitalista attraverso processi di costruzione di sistemi di relazioni socialiste.

Ma da subito è possibile contrapporsi ai i meccanismi di potere dei centri-polo, delle aree del sistema di dominio del modo di produzione capitalista, come sta tenacemente realizzando l’alleanza alternativa dell’ALBA. E per le organizzazioni sindacali e i movimenti sociali che agiscono in Europa si tratta di acutizzare le contraddizioni contrapponendosi direttamente alle regole dei potentati dell’Europolo.

Le lotte sociali della fine degli anni ’90, nelle loro varianti e diversità come in Europa nelle grandi manifestazioni contro la guerra e contro il neoliberismo e quelle in America Latina che hanno portato al potere Governi rivoluzionari e democratici come in Venezuela, Bolivia , Ecuador, Nicaragua, Salvador, Uruguay, Argentina, Brasile, tutti nelle loro diverse modalità hanno animato un dibattito sul netto rifiuto del neoliberismo ed anche sulla critica radicale allo stesso sistema capitalista nei suoi fondamenti teorici e alternativi,per il suo superamento in senso socialista,che già può vantare eccellenti apporti, anche provenienti soprattutto dal paese con il capitalismo più sviluppato del pianeta.

La partecipazione o meno a queste lotte e al dibattito che si è aperto sarà la linea di demarcazione della riorganizzazione dello spazio politico tra le forze della sinistra radicale, e di quella di classe, rispetto a quella con progetti inseriti ancora nella logica capitalista; le nuove strutture sociopolitiche e organizzative alternativamente proiettate rispetto al sistema vigente, continueranno i processi di transizione socialista e le battaglie in chiave anticapitalista e antimperialista.

Nelle tendenze attuali non rimane da scoprire nessuna forza interna al sistema che permetta di pensare alla possibilità di una ricomposizione delle condizioni del Patto Sociale del periodo post-guerra, che ha dato origine al cosiddetto Stato sociale Keynesiano dei paesi centrali, molto meno per un’eventuale estensione dello stesso verso la maggioranza espropriata e impoverita del pianeta.

L’alternativa possibile e necessaria richiede una maggiore qualificazione e sofisticazione nelle richieste e nelle analisi dei lavoratori e dei loro rappresentanti, dei cittadini e delle loro organizzazioni.

E allora la risposta alla crisi non può avere altro carattere che quello del rafforzamento politico del conflitto di classe internazionale, nelle sue diverse forme di rappresentazione sociale e politica. Un’alternativa mondiale per la trasformazione radicale deve essere un progetto che contenga un significato di classe transnazionale, con da subito una strategia che si muova in un orizzonte capace di determinare processi politici che, anche nei momenti rivendicativi tattici, abbiano sempre chiara la strategia politica per il superamento del modo di produzione capitalista e di costruzione del socialismo.

Costruire in maniera indipendente le proprie prospettive muovendosi da subito nella piena autonomia da qualsiasi modello consociativo, concertativo e di cogestione della crisi per riaffermare attraverso la pianificazione socio-economica la volontà di autodeterminazione dei popoli nella democrazia politica partecipativa. Solo così l’autonomia di classe assume il vero connotato di indipendenza dai diversi modelli di sviluppo voluti e imposti dalle varie forme di capitalismo, ma soprattutto da sempre lo stesso sistema di sfruttamento imposto dall’unico modo di produzione capitalistico;e quindi in tal senso il movimento dei lavoratori non può e non deve essere elemento cogestore della crisi ma trovare anche nella crisi gli elementi del rafforzamento della sua soggettività tutta politica.

Come sempre le sorti della classe lavoratrice non sono in mano alle varie ricette economiche, comprese quelle edulcorate dalle varie facce di un nuovo keynesismo anche di sinistra, ma la soluzione rimane tutta e solo politica e come sempre la parola va alle soggettività politiche organizzate in campo, capaci di proporsi come forze di un cambiamento totale radicale, quindi come forze rivoluzionarie.

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Per quanto precedentemente esposto si confrontino alcuni articoli di Rossi S., in particolare “Il ruolo delle banche è mutato”, 12 febbraio 2010 , Università di Friburgo , Svizzera, www.economiaepolitica.it/index.php/moneta-banca-finanza/il-ruolo-delle-banche-e-mutato/

2 Cfr. Martufi R., Vasapollo L., Profit State, redistribuzione dell'accumulazione e Reddito Sociale Minimo", casa editrice La Città del Sole, Napoli ,1999, AA.VV., "No/Made Italy Eurobang/due: la multinazionale Italia e i lavoratori nella competizione globale", Mediaprint- Ediz. Roma, 2001

3 Cfr. AA.VV., "No/Made Italy Eurobang/due: la multinazionale Italia e i lavoratori nella competizione globale", Mediaprint- Ediz. Roma, 2001; Martufi R., Vasapollo L., “EuroBang. La sfida del polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale", Mediaprint- Ediz. Roma, 2000