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Editoriale

Le proposte di USB per una revisione del sistema previdenziale

Roma,

Pubblichiamo il documento consegnato da USB Pensionati alla ministra Nunzia Catalfo con le proposte per una revisione del sistema previdenziale italiano alla luce della fine nel 2021 della sperimentazione di Quota 100

 

Alla c.a. della Ministra del Lavoro

On Nunzia Catalfo

 

L’approssimarsi della fine della sperimentazione della cosiddetta “Quota Cento” nel 2021, impone la necessità e rappresenta un’occasione per una profonda revisione del sistema previdenziale del Paese.

Quella sperimentazione infatti non ha modificato in termini strutturali i requisiti per il diritto a pensione stabiliti con la cosiddetta legge Fornero DL.201/2011, limitandosi ad introdurne nuovi, 38 anni di contributi e 62 anni di età anagrafica, validi solo per tre anni.

Allo scadere della cosiddetta sperimentazione nel 2021 si determinerà quindi uno scalone tra chi potrà acquisire quei requisiti al 31 dicembre 2021 e chi maturerà il diritto a pensione il 1 gennaio 2022, trovandosi quest’ultimo soggetto di nuovo alla normativa prevista dal DL.201/2011.

Uno “scalone” che comporterebbe un aumento sia del tetto contributivo da raggiungere sia dell’età anagrafica di almeno 5 anni, ed il ripristino della progressività legata all’aspettativa di vita.

Una condizione assolutamente inaccettabile a cui è necessario porre rimedio, cogliendo l’occasione questa volta per un intervento sul sistema in termini strutturali.

Abbiamo accolto quindi con favore la convocazione delle parti sociali, da parte della Ministra del Lavoro On. Catalfo a partecipare ai tavoli tecnici di studio sulla riforma del sistema pensionistico, e l’invito a fornire valutazioni sui possibili interventi di modifica.

 

Forniamo quindi di seguito alcuni punti di riflessione, alcuni dei quali già anticipati brevemente dalla USB nei tre incontri già tenutisi, insieme ad una cornice generale sui possibili scenari futuri.

 

SUPERAMENTO SCALONE

In merito all’urgenza rappresentata dal problema scalone e le difficoltà che si determinerebbero con il ripristino della legge Fornero DL.201/2011, riteniamo sia necessario confermare quanto previsto dalla L.4/2019 fissando a 62 anni il tetto massimo per l’accesso a pensione, introducendo tuttavia flessibilità nella somma tra i requisiti anagrafici e contributivi previsti per il raggiungimento di quota cento.

Si ricorda che molti lavoratori impegnati anche in attività logoranti, non sono riusciti ad utilizzare quota cento per il mancato raggiungimento di uno dei due requisiti, pur avendo raggiunto quota centodue (61-41).

Rispetto alle ipotesi ricorrenti nei mezzi di informazione, esprimiamo la nostra contrarietà a qualsiasi tentativo di condizionare la necessaria revisione di quota cento con l’estensione del calcolo contributivo a tutta l’attività lavorativa, a causa degli evidenti effetti depressivi che questo comporterebbe sulle pensioni stesse, come già rilevato da diverse fonti.

Cosi come non condividiamo le ipotesi di penalizzazione percentuale come differenziale fra l’età di uscita ed il tetto massimo di età anagrafica.

Il raggiungimento della nuova quota cento, dovrà prevedere l’applicazione del “calcolo pro rata”, senza ulteriori penalizzazioni, ritenendo già penalizzante il calcolo contributivo a cui si somma l’ulteriore riduzione dei trattamenti pensionistici determinata dai coefficienti di trasformazione, che comunque si dovranno fermare alla soglia dei 62 anni.

Riteniamo altrettanto urgente un intervento per superare definitivamente l’attuale normativa relativa al pagamento del TFS/TFR dei dipendenti pubblici, introdotta dal DL. 138/2011 e dall’art.1 comma 484 L. 147/2013, modificata da ultimo dall’art. 23 comma 2 legge 4/2019, per tornare a quanto previsto dal DL. 28 marzo 1997N.79. Senza quindi il ricorso al pagamento della liquidazione tramite sistema bancario ed estendendo, al contrario, quanto previsto dall’art. 2120 del codice civile anche ai dipendenti pubblici.

 

SOSTENIBILITA’ DEL SISTEMA PREVIDENZIALE / SEPARAZIONE ASSISTENZA PREVIDENZA

In primo luogo, posto che il lavoro e la piena occupazione sono gli obiettivi primari da raggiungere, riteniamo necessario, come primo impegno da parte del Ministro, fare chiarezza sulla stabilità del sistema pensionistico, interrompendo la falsa comunicazione, fatta circolare già dalla riforma Dini L.335/1995, sulla non sostenibilità del sistema.

Come chiarito dal Ministro Savona in parlamento nel 2019, il sistema si autofinanzia ed anzi restituisce al Paese oltre 50 miliardi ogni anno con il prelievo fiscale sulle pensioni. Cifra che lo stesso presidente dell’INPS Prof. Tridico ha aggiornato durante il primo incontro del 27 gennaio in 58 miliardi, a cui vanno aggiunti altri 3/4 miliardi di IRPEF locale.

Non esiste quindi un problema di sostenibilità soprattutto se si considera che il bilancio dell’INPS non consente una chiara separazione tra assistenza e previdenza. Una indeterminatezza che per la USB dovrà essere sciolta in questa occasione per rendere credibile qualsiasi intervento di riforma.

 

 

 

TAGLIO DEL PRELIEVO FISCALE SULLE PENSIONI

La nostra proposta è di effettuare una netta separazione tra assistenza e previdenza e mantenere all’interno del sistema pensionistico almeno una parte dei 58 miliardi di tassazione sulle pensioni, consentendo di portare le pensioni minime in essere a 1.000 euro, tetto che dovrebbe essere garantito a regime a tutti coloro che escono dal modo del lavoro, avendo raggiunto l’età anagrafica di 62 anni.

Una parte di tali risorse potranno inoltre essere utilizzate per ridurre il prelievo fiscale sulle pensioni in essere, abbassando i coefficienti dl prelievo fiscale alla media degli altri paesi europei. Intervento che può così realizzare una reale rivalutazione delle pensioni in essere, in analogia a quanto si sta facendo con il taglio del cosiddetto cuneo fiscale sul lavoro, da cui i pensionati sono al momento esclusi, così come sono stati esclusi, insieme agli incapienti, dagli 80 euro del bonus Renzi.

 

EVASIONE CONTRIBUTIVA E DETASSAZIONE

E’ necessario ricordare, in particolare a chi pone un problema sulle risorse, che mentre dalle pensioni vengono versati alla fiscalità generale quasi 60 miliardi l’anno, l’evasione contributiva accertata al 2015 valeva 157 miliardi. Cifra indicata nella relazione del 22 giugno 2016 alla commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali.

Evasione contributiva al cui contrasto non ha portato giovamento, se non danno, quanto stabilito nel Jobs Act con l’unificazione dell’attività di vigilanza di INPS, INAIL e Ministero del Lavoro nell’INL.

Unificazione che per la USB, vista la sua inefficacia e le difficoltà fatte registrare in termini operativi, deve essere ripensata restituendo l’attività di vigilanza alle rispettive amministrazioni.

Ai 157 miliardi di evasione contributiva è necessario aggiungere inoltre la defiscalizzazione dei contributi prevista per le nuove assunzioni già con la Legge di stabilità del 2015 e con i successivi interventi volti, nelle intenzioni, a favorire l’occupazione e la stabilità dei rapporti di lavoro, che costituiscono invece, insieme alla cosiddetta “pace fiscale”, un mancato apporto di risorse nel bilancio dell’INPS, a fronte di prestazioni previdenziali che dovranno comunque essere erogate.

Risorse che vengono a mancare anche a causa della totale detassazione contributiva delle rendite, del capitale finanziario e dell’aumento del MOL (margine operativo lordo) attraverso la sostituzione uomo macchina.

Fattore quest’ultimo che deve assolutamente essere preso in considerazione come il vero elemento destabilizzante del prossimo futuro, sia in termini di occupazione sia conseguentemente dell’intero sistema previdenziale.

 

IPOTESI SCENARIO FUTURO.

Se è necessario pensare ad un intervento immediato per consentire, come detto sopra, il superamento dello scalone nel 2022, riteniamo altrettanto necessario non fermarsi a qualche modifica parziale del sistema, cogliendo l’occasione per ripensare, insieme ai tetti di uscita anche la modalità di calcolo che dal 2032 vedrà il sistema contributivo come unica regola di determinazione della pensione.

Discutere sul limite massimo di 62 anni per l’accesso al pensionamento di vecchiaia o il tetto dei 40/41 anni come limite contributivo, riportati dai mezzi di informazione, può avere senso solo partendo da un intervento risolutivo per l’abolizione del calcolo contributivo e della progressiva riduzione dei coefficienti di trasformazione applicati, che rappresentano un elemento di impoverimento delle pensioni attuali e future determinando tassi di sostituzione tra il 45% ed il 55% della retribuzione ante pensionamento.

Effetti che, se riguardano in tempi più ravvicinati una platea di lavoratori con 50 anni di età, gravano ovviamente ancora di più sulle pensioni dei giovani, vista la precarietà e la discontinuità dei rapporti di lavoro che si accompagna ad una retribuzione assolutamente inaccettabile propria del fenomeno dilagante del lavoro povero. Fattori che non consentono la continuità del versamento dei contributi in termini di diritto e congruità ai fini della misura.

 

SUPERAMENTO CALCOLO RETRIBUTIVO E CONTRIBUTIVO

Con l’adozione del calcolo contributivo di stampo assicurativo, che entrerà definitivamente a regime a partire dal 2032, si è determinato un ribaltamento del principio costituzionale per cui la responsabilità del trattamento pensionistico non è più compito dello Stato, ma ricade interamente sul lavoratore e lo Stato procede a traslare la responsabilità di un futuro rischio di povertà in capo al cittadino.

Il sistema pensionistico si è trasformato in un sistema a “capitalizzazione”, ovvero una sorta di “assicurazione vita individuale” secondo la quale, rompendo il principio solidaristico costituzionale dell’Art.38, ciascun lavoratore, al verificarsi della condizione di pensionamento e di perdita di qualsiasi possibilità di guadagno, è messo nelle condizioni di singolo soggetto rispetto alla collettività, potendo contare solo sul proprio montante contributivo versato.

Condizione che diventa devastante per un lavoratore con una retribuzione bassa e discontinua a causa della precarizzazione dei rapporti di lavoro, ovvero la generalità della condizione di lavoro delle nuove generazioni, che comporta l’impossibilità di versare con costanza una contribuzione ed allontana sempre di più il raggiungimento dei requisiti pensionistici.

Effetti a cui si unisce l’impoverimento della pensione dovuto alla progressiva riduzione dei coefficienti di trasformazione propri del sistema di calcolo contributivo e il mancato riconoscimento della cosiddetta integrazione al minimo.

 

Del resto, anche con il sistema retributivo si è assistito negli anni a distorsioni pesantissime, visto che nel 2012 oltre 19 milioni di pensioni facevano registrare un importo medio lordo annuo di 7.726 euro, mentre per 321 pensioni l’importo medio annuo risultava di 387.204 euro lordi, (tabella INPS anno 2012 trattamenti pensionistici e beneficiari), senza parlare delle pensioni pari a 90.000 euro al mese (1.170.000 euro l’anno).

Entrambi i sistemi finiscono quindi per premiare le alte retribuzioni e la conseguente maggiore capacità contributiva, allontanandosi di fatto da quel principio solidaristico posto alla base dell’art.38 della Costituzione.

 

PROPOSTA USB

La USB pone quindi all’attenzione del Ministro la possibilità di arrivare ad una modifica radicale, ponendo come principio un effettivo sistema a ripartizione di tutte le risorse derivanti dalla contribuzione versata, e come modello di riferimento l’ipotesi formulata per l’individuazione della cosiddetta pensione di garanzia per i giovani, già oggetto di studio.

 

Fissato in 1.000 euro mensili il valore di una pensione minima ed in 5.000 euro netti mensili il tetto alla pensione massima, la proposta della USB individua tre componenti per il calcolo dell’importo pensionistico legati all’età anagrafica, agli anni di lavoro ed alla progressività fiscale.

 

L’importo della pensione sarà determinato da tre quote;

 

Una prima quota pari a 1.000 euro, valore minimo della pensione, che si raggiunge a 62 anni di età, limite del requisito anagrafico che potrà essere incrementato su base volontaria.

 

Una seconda quota, che si aggiunge al primo importo, determinata dal prodotto di un coefficiente fisso per gli anni di lavoro, compresi i periodi figurativi, fino al raggiungimento del tetto di 40 anni, limite del requisito contributivo utile al diritto a pensione senza riferimento all’età anagrafica, che potrà essere superato su base volontaria.

 

Una terza quota che si aggiunge alle precedenti, fino alla concorrenza del tetto massimo di pensione di 5.000 euro netti mensili, determinata da un ulteriore coefficiente fisso legato alla progressività del prelievo fiscale, con riferimento agli ultimi 10 anni, moltiplicato ancora una volta per gli anni di lavoro prestato.

L’importo finale sarà soggetto alla rivalutazione periodica, con l’individuazione di un indice determinato sulla base di “paniere” proprio della condizione di quiescenza.

 

SISTEMI DI FLESSIBILITA’

Mantenendo fisso il valore di 1.000 euro della prima quota il requisito di 62 anni potrà essere ridotto in relazione a condizioni di lavoro usurante, alla condizione femminile con particolare riguardo all’attività di cura, e particolari condizioni di carattere sociale dei lavoratori.

 

PENSIONI MIGRANTI

In ultimo, ma certamente non meno importante, ribadiamo quanto già anticipato durante un precedente incontro del tavolo tecnico in merito alla realtà sociale dei migranti.

E’ indispensabile allargare le convenzioni con i Paesi di provenienza dei migranti che si fermano a lavorare nel nostro Paese, in modo da poter riconoscere un trattamento pensionistico anche ai lavoratori che, scegliendo di ritornare al loro Paese di provenienza, non hanno oggi alcuna garanzia, pur avendo versato la contribuzione previdenziale.

Nell’ipotesi dell’impossibilità di definire tali convenzioni, per mancanza di reciprocità, riteniamo opportuno prevedere per tali lavoratori, almeno un trattamento minimo, come risultante della valorizzazione della contribuzione versata.

In tal senso potrebbe essere esaminata la possibilità di conferire i contributi versati dai lavoratori migranti, cui non corrisponde un trattamento pensionistico, nel Fondo pubblico ipotizzato dal Presidente dell’INPS Prof. Tridico, utilizzando le risorse per interventi a carattere sociale.

 

Roma 19 febbraio 2020

USB Pensionati

Federazione del sociale