In Italia 6.788.000 donne hanno subito violenza nell’arco della loro vita e dall’inizio del 2016 sono già 93 i casi di femminicidio. La maggior parte delle violenze di genere si consuma nel “rassicurante” ambiente domestico per mano di uomini conosciuti e, principalmente, incapaci di accettare scelte di autodeterminazione delle donne. La violenza di genere non è frutto di un raptus, né la manifestazione di una patologia, ma un fenomeno strutturale che origina dagli squilibri nei rapporti di genere e sociali. Non è un caso che la maggior parte delle vittime di violenza siano donne che cercano, anche attraverso il lavoro, di percorrere la faticosa strada dell’indipendenza e dell’autonomia.
La crisi economica continua a falcidiare posti di lavoro, creando insicurezza e precarietà per milioni di persone, e ha ridisegnato il mercato del lavoro con forme sempre più atipiche e non stabilizzate, dove maggiore è la percentuale delle donne.
La caratteristica del lavoro femminile continua ad essere la presenza nei livelli contrattuali più bassi, il maggior utilizzo di contratti precari e atipici, una retribuzione del 10,9% inferiore a quella degli uomini a parità di mansione, il ricorso massiccio al part time involontario, il maggior impiego in lavori non qualificati nonostante una maggiore scolarizzazione, la pratica delle dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione.
I recenti dati INPS sul nuovo e feroce volto del precariato incarnato dai voucher, ci dicono che il 51,5% dei destinatari di questa moderna forma di schiavitù è donna. Avanza così una nuova classe sociale di giovani precarie, mentre le conseguenze del divario retributivo e della discontinuità contributiva incidono sul reddito femminile lungo tutto l’arco di vita, esponendo le donne ad un maggiore rischio di povertà in vecchiaia. Già ora l’importo medio pensionistico è inferiore al 29% di quello percepito dagli uomini.
L’assenza o la presenza di un lavoro dequalificato e/o precario, la mancanza di politiche di protezione sociale, sul reddito e sulla casa, i tagli e la privatizzazione dei servizi pubblici se non sono direttamente responsabili delle violenze in sé, lo sono sicuramente nell’ impossibilità di rendere praticabili percorsi di affrancamento da essa e nel riperpetuare una cultura della donna come unica responsabile del lavoro domestico e di cura.
Le risposte al fenomeno strutturale della violenza di genere non possono essere emergenziali e repressive.
Rivendichiamo il diritto a servizi pubblici accessibili, al reddito sociale, a casa, lavoro e parità salariale; all’educazione scolastica, alle strutture sanitarie – a comiciare da consultori liberi da obiettori; alla formazione di operatori sociali, sanitari e del diritto.
Vogliamo il riconoscimento ed il finanziamento dei Centri Antiviolenza ed il sostegno economico per le donne che denunciano le violenze.
Le politiche di austerità, imposte da un governo asservito ai dettami della UE, rappresentano la negazione di quanto minimamente necessario al contrasto della violenza di genere: il 26 novembre gridiamolo forte e chiaro!
Aderente
alla FSM