Nella crisi attuale, che riveste ormai caratteristiche strutturali universalmente riconosciute, la scelta italiana, e non solo, è quella di puntare sui tagli del costo del lavoro piuttosto che sugli investimenti allo sviluppo.
Non è una novità assoluta, visto che le politiche degli ultimi vent’anni vanno in questa direzione, ma oggi stiamo assistendo al completamento di questo progetto con le riforme della scuola e dell’Università e con il continuo depauperamento delle risorse investite nella ricerca pubblica che stanno portando il nostro sistema di formazione e ricerca verso la completa destrutturazione.
È chiaro che il catalizzatore di questo processo oggi è rappresentato dalla crisi e dalle trasformazioni ad essa connesse, particolarmente pericolose quando riguardano il sistema educativo-formativo e di ricerca che rappresenta il cuore del Paese.
Proprio in ragione di ciò riteniamo urgente avviare un confronto serio su come i governi stanno affrontando questa crisi partendo dall’analisi della stessa per arrivare , a discutere su che tipo di Paese e di società pensiamo di ritrovarci, al termine della crisi.
Dal punto di vista economico, sociale, culturale e scientifico. Per questo lanciamo un appello a tutta la comunità scientifica, ai lavoratori dei settori Scuola Università e Ricerca, agli studenti, per costruire insieme un Comitato che elabori una proposta concreta per riformare il nostro sistema di Formazione e Ricerca in funzione dei bisogni della collettività e non delle imprese.
VENERDÌ 3 DICEMBRE ORE 10
ASSEMBLEA PUBBLICA DI COSTITUZIONE DEL COMITATO
“PAESE SENZA RICERCA GIOVANI SENZA FUTURO”
AULA PINTOR PRESSO LA SEDE DI CARTA
VIA DELLO SCALO S. LORENZO 67 -ROMA-
comitato.sapere@usb.it
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Documento propedeutico alla costituzione del Comitato
“Paese senza ricerca giovani senza futuro”
Perché costituire un comitato per ristrutturare il sistema della ricerca e quello dell’educazione/formazione?
Perché l’università, la scuola e la ricerca rappresentano i settori nodali per qualsiasi tipo di ragionamento si voglia costruire su queste tematiche. Da circa vent’anni queste istituzione subiscono riforme che ciclicamente ne riducono il prestigio, ne limitano il ruolo, ne modificano la missione. L’obbiettivo dei vari provvedimenti legislativi, che si sono succeduti, è sempre stato quello di portare la formazione universitaria ad essere finalizzata più alla produzione di manodopera qualificata che non alla crescita culturale del Paese. La cultura e la scienza non vengono più considerati patrimoni in sé e quindi l’Università serve esclusivamente a fornire alle imprese quei lavoratori che gli servono. Ed oggi il combinato disposto di queste trasformazioni con quelle del mercato del lavoro hanno prodotto la completa subalternità del lavoro intellettuale alla logica del profitto arrivando a trasformare gli atenei in veri e propri precarifici.
Dopo anni di passività è ora che la parte “viva” (o sana) di questo mondo scientifico e formativo si riprenda il ruolo che le compete e ridiventi soggetto attivo in una discussione dalla quale è stata costantemente emarginata al ruolo di spettatore. Con la riforma Gelmini si sta dando l’ultima spallata ad un sistema, quello dell’Università, già ridotto al collasso da anni. L’introduzione della laurea breve con la riforma Berlinguer ha rappresentato esclusivamente una riduzione delle ambizioni culturali in favore di un modello in apparenza più efficace (?) come via di introduzione al lavoro. I corsi sempre più specialistici hanno avuto la stessa funzione impedendo di fatto che dall’università pubblica possano uscire generazioni pronte ad essere qualcosa in più di manodopera qualificata e sempre più a basso costo.
La scuola è il cardine (evidentemente compresa) del progetto di abbassamento e trasformazione del livello culturale del Paese e deve essere quindi modificata per essere funzionale anch’essa al nuovo modello culturale. Da qui una scuola di bassa qualità con istituti tecnici e professionali consegnati nelle mani delle aziende e con i licei sempre più sviliti nella loro funzione.
Non vogliamo difendere (il sistema attuale) il vecchio modello scolastico perché non rappresenta quello di cui il nostro paese ha bisogno, allo stesso modo sicuramente non ci sembra adeguato il precedente elaborato dal memorandum della conoscenza del governo Prodi che presenta troppi punti comuni al modello proposto dal governo Berlusconi. Serve un progetto nuovo ed alternativo nel quale l’Università, la Scuola e la Ricerca possano riprendere a svolgere a tutto tondo la funzione per la quale sono nate seppure adeguandole ad un contesto generale decisamente trasformato in virtù della globalizzazione. Proprio per questo a ripensarla devono essere coloro che hanno scelto di dedicare ad essa la propria vita e le proprie energie.
Funzione sociale della scienza
L’esigenza di ripartire da zero, riformare un pensiero e proporre soluzioni, deriva dalla sensazione di instabilità che avvertiamo oggi leggiamo nei giovani che escono dalla scuola e dall’università, dall’appesantito sconforto che si respira tra coloro che hanno fatto del sistema educativo e della ricerca la propria vita e il proprio lavoro, da quel “borbottio”, purtroppo molte volte sommesso, che riemerge, si spegne e riappare tra di noi. Chi ha scelto di dedicarsi alla carriera scientifica e formativa lo ha fatto con passione e con la convinzione di poter andare a svolgere una funzione importante per il progresso inteso come miglioramento delle condizioni di vita della collettività in materia di salute, ambiente, tecnologia. Troppo spesso la frustrazione dei lavoratori della ricerca, dell’università o della scuola dovuta al di vedersi negata tale funzione si concretizza in mozioni delle assemblee degli atenei o degli enti di ricerca che poi non trovano nessuno sbocco pratico, complici anche le dirigenze scientifiche e quei rettori legati a sistemi di potere che non vogliono nessun vero rinnovamento. In realtà la funzione negata al del singolo ricercatore o professore è la negazione della funzione sociale della scienza stessa, per cui è dovere, oltre che diritto di ciascuno di noi, rivendicare il diritto a svolgerla.
La voglia di ridisegnare una società “sostenibile” ambientalmente e socialmente, viene dalla stessa società che è consapevole del ruolo centrale che assume in tal senso il settore formativo e di ricerca; ne abbiamo testimonianza ogni qualvolta si porta tra la gente la nostra protesta legandola a tematiche riguardanti la vita di tutti i giorni, lasciando, anche solo per poco, che la distanza tra lo “scienziato” ed il cittadino venga annullata. Allora la società che ci circonda si attiva, comprende, chiede risposte a quel mondo politico che negli ultimi 30 anni ha solo saputo ridimensionare, controllare, imbrigliare le nostre capacità, la nostra voglia di costruire un diverso mondo, collettivo e partecipato. È un fenomeno questo che si verifica spesso per la scuola e che può essere esteso tranquillamente all’università e, perché no, alla ricerca.
Questo è lo scopo del comitato. Le infinite riforme a cui siamo stati sottoposti hanno piegato la potenza della scienza, quale prodotto più qualificato dell’intero lavoro sociale del nostro paese, alle esigenze di pochi (uno strumento di tutti NO), distorcendo quella funzione che è stata l’attrattiva che ci ha spinto a scegliere questo mestiere, che vede al centro di tutta la nostra vita lavorativa il bene comune, l’interesse collettivo. (Ri)costruire, rimettere al centro quello che veramente è necessità della collettività e non quello che serve all’industria, al singolo, all’economia, è ora l’imperativo, soprattutto in una nuova fase di crisi economica nella quale si accentua l’inefficacia di un modello di sviluppo in cui chi è assistito è solo l’impresa e non l’essere umano.
A quali funzioni deve ambire questo comitato?
Ambire significa puntare oltre i nostri limiti, quindi aprirsi alle capacità e alle conoscenze che lo desidereranno per produrre, nell’oggi e per il domani, documenti, proposte, analisi che determinino i passaggi attraverso i quali si riportino alla comunità questi settori. Riconducendo al settore pubblico il sistema educativo, riducendo ed annullando l’intervento privatistico, con l’obbiettivo chiaro di sostituire le mere opportunità che si promettono per l’individuo con le certezze di un sistema educativo che stimoli alla messa in comune, al riconoscimento del singolo in una società plurale. Tutto questo allo scopo di produrre formazione superiore per il maggior numero possibile di persone, arricchendo la collettività di saperi e conoscenze, e riportare la ricerca e la proprietà intelettuale in genere alla società sottraendola alla mercificazione.
Il comitato non potrà non operare che su tematiche di amplissimo spettro.
Analizzare l’evoluzione delle riforme scolastiche, universitarie, del settore formativo in generale, e delle contemporanee e reiterate trasformazione degli enti di ricerca pubblici, a tutto favore delle fondazioni a vocazione privatistica e donatoria, rende possibile comprendere come i poteri forti abbiano irretito almeno due generazioni di operatori, fino ad appropiarsi della cosa pubblica e della produzione intelettuale che da essa scaturisce. D’altra parte, (re)indicare a cosa servono e come operano i nostri settori ci permette di progredire verso la proposta di un nuovo modello che detemini il cambiamento verso una società equalitaristica basata su un diverso modello di sviluppo e vita. E questo coincide con la (ri)educazione nel senso di un percorso che riporti dapprima i nostri colleghi a ripensare se stessi come strumenti dello sviluppo (anche culturale oltre che economico) destinato a tutta la comunità non come mezzo dell’arricchimento di una élite (anche determinante il modello culturale).
Il comitato vuole essere uno strumento dinamico di elaborazione, discussione e confronto all’interno della comunità scientifica e tra la comunità scientifica e la società. Per questo si dota di tutti i mezzi di comunicazione che gli sono possibili, in un momento storico in cui la tecnologia massimizza la diffusione e riduce il controllo “normalizzante”.
Il Comitato nasce con l’ambizione non di dare risposte, ma di formulare le giuste domande per costruire, insieme a tutti coloro che decideranno di aderire, le giuste risposte.
Il prodotto “sapere” deve essere esso stesso funzionale esclusivamente alle esigenze dell’impresa o deve essere al servizio della società?
Quella attuale, o peggio ancora quella in divenire, è l’università “moderna” che vogliamo? Oppure serve una università pubblica che formi le nuove generazioni con un livello culturale alto che gli consenta di essere motore reale del Paese e non semplici rotelle di un ingranaggio troppo spesso incomprensibile?
La Ricerca che vogliamo fare è la ricerca del business? O abbiamo scelto questo mestiere con la convinzione di poter essere parte di quello straordinario mondo che ha dato un’infinità di strumenti all’umanità per progredire ed estendere il benessere?
Il sistema attuale di formazione e di ricerca di questo Paese corrisponde a quello che vorremmo?
Tematiche che il comitato intende sviluppare
A partire dalle domande sopra formulate, il comitato si pone come obbiettivo produrre documenti di analisi e proposte su tutto ciò che riguarda la scuola, la formazione, l’università e la ricerca pubblica (volutamente tralasciamo il termine “conoscenza” che determina un’astrazione, una distanza dalla società non reale ed creata artificiosamente, anche dalla politica e dal sindacato concertativo per differenziare ed isolare i nostri settori dal resto della collettività). A tale scopo proponiamo tre campi sui quali intervenire individuati come tematiche inevitabilmente intrecciati tra loro che se associate vanno a comporre un quadro d’insieme che definisce il progetto generale.
Temi generali
1) Funzione della scuola, formazione e Università: rielaborare il ruolo dell’educazione e dell’accrescimento cognitivo è una priorità. Nell’ultimo trentennio abbiamo assistito alla progressiva ri-privatizzazione del sistema scuola-università-formazione. L’ultimo governo raccoglie i frutti del “memorandum della conoscenza”, nel quale con il sindacato allora concertativo ora collaborazionista si stabilivano le modalità, anche organizzative, attraverso le quali piegare i nostri settori alle esigenze del privato allontanandole dalla collettività. Rispetto ad una formazione che oggi si vuole fortemente piegata alle esigenze dell’impresa e agli interessi dei soggetti privati, non è sufficiente dire che vogliamo il rilancio della Scuola e dell’Università pubblica. Il progetto per essere credibile deve essere complessivo, legando istruzione primaria, secondaria ed universitaria in un processo che individui come centrale lo sviluppo dell’individuo e la sua formazione, con l’obbiettivo di favorire lo sviluppo collettivo. Una scuola ed un Università diverse, realmente nuove devono affrontare problematiche estremamente concrete: Riportare la scuola dalle mani dei privati nell’alveo pubblico rivisitando il ruolo del Preside manager; abbattere l’attuale struttura organizzativa dell’Università plasmata sul potere dei baroni eliminando le fondazioni chiara intrusione del privato; eliminare le interferenze dell’impresa per strutturare i corsi in maniera non specialistica ma metodologica ed analitica; immaginare infine come relazionare il sistema della ricerca con la docenza e con quello, evidentemente differente, degli enti di ricerca.
2) Funzione della ricerca pubblica: in un recente convegno abbiamo definito la ricerca un “bene comune”. Come l’acqua, come la sanità, la scuola, la Ricerca è parte del sistema solidaristico che deve permettere alla nostra società di avanzare ridelineando un modello ormai obsoleto e perdente che rischia di distruggere la società umana. Paradigmatica in questo senso è la trasformazione del concetto di “proprietà intellettuale” da disputa accademica sulla primogenitura di una scoperta ad “entità economica” commerciabile, oltre che freno al libero sviluppo, all’open source. La ricerca pubblica che serve è la Ricerca Pubblica che produce benessere per tutti per cui interviene nel sistema produttivo innestandosi in quello educativo producendo un sistema sostenibile di produzione, basato sull’evoluzione e non nel “surplus” produttivo. È chiaro che al centro di questa discussione si pone il problema di come proteggere dalla monopolizzazione la “proprietà intellettuale” soprattutto per modificarne il concetto, ricalibrandola anche e soprattutto nel contesto sociale e collettivo in cui viene prodotta. Gli enti di ricerca nazionali vanno poi riorganizzati, eliminando i rischi di federalismo e di particolarismo, in modo da renderli in grado di rispondere alle esigenze della collettività. In questo senso va rivisto il legame con i ministeri vigilanti e la loro mission mantenendoli allo stesso tempo autonomi nella determinazione delle modalità di attuazione degli stessi mandati. Vanno poi determinati sistemi di controllo interno ed esterno allo scopo di impedire che baronati ed impresa si infiltrino determinandone scelte e indirizzi. Riportare infine la struttura ad una agilità utile alla necessità di collaborazione tra ricercatori, eliminando sovrastrutture gestionali e poltronifici, che rendono ingessate le organizzazioni.
3) La proprietà intelettuale: siamo di fronte probabilmente al cuore del problema. Definire come la collettività contribuisce (con il sistema scolastico, con l’università, con i propri fondi e le proprie strutture) alle scoperte scientifiche e ai proventi che da esse derivano è di fondamentale importanza. Scendendo nello specifico bisogna definire se si ritiene eticamente ed economicamente sostenibile che un ricercatore (costando migliaia di euro alla collettività) possa vendere un brevetto, come lo debba fare e che ritorno dovrebbe avere la collettività. Inoltre, quando la ricaduta coinvolge il sistema produttivo, come vincolare l’impresa stessa allo sfruttamento dell’idea nel contesto che ha contribuito a produrla. Il comitato deve, in estrema sintesi, definire: che significato ha “proprietà intelettuale”? Come va riservato alla collettività il riconoscimento della parte svolta nel contesto che ha portato alla scoperta scientifica? Come e quando questa possa essere commerciabilizzata, come questo ricade nel sistema produttivo creando sviluppo per il paese? Quali sono le scoperte che non debbono e non posso essere rese commerciabili? Come favorire, invece, il sistema dell’open source, ritornando all’origine della ricerca scientifica?
4) Il ruolo del finaziamento pubblico: a noi sembra chiaro che proprio perché detentori di una funzione pubblica i settori dell’educazione, formazione e ricerca debbano avere un finanziamento pubblico. Finanziamento che deve essere anche riallocazione di tutti. No agli interventi assistenzialistici (dagli “sgravi” del ministero Bersani, al click day tremontinano,ai voicher di 7500 euro del ministro Romani) diretti ad una impresa che non fa ricerca (i dati della bravettualità privata sono chiaramente indicativi della distorsione di fondi provocata). Vanno regolate anche le fondazioni private, che devono chiarire, a seconda della provenienza delle donazioni, in maniera trasparente le ricadute (in particolare della proprietà intellettuale). Disciplinare la raccolta di fondi presso la collettività e rendere trasparenti i risultati e gli effetti. Creare strutture e modalità per controllare l’uso dei fondi, la ricaduta sullo sviluppo. Facilitare l’accesso di tutta la comunità dei ricercatori ai fondi, eliminando le “mafie” baronali ed accentuando la capacità di partecipazione collaborativa.
5) Piante organiche di scuola, università e ricerca: Una parte dell’analisi va sicuramente indirizzata nella quantificazione, con riferimento anche all’estero (ed in particolare alla Cina) alla reale entità del personale di cui hanno bisogno i nostri settori. Il tema direttamente correlato a quello precedente, va svilippato nel dettaglio, perché gli ultimi Ministri (a partire da Berlinguer) hanno collaborato attivamente nel progressivo smantellamento anche quantitativo delle strutture in oggetto. Individuare le reali esigenze numeriche per farci stare al passo dei paesi con cui possiamo confrontarci realmente (e qui pensiamo ai paesi scandinavi più che ai big europei) liberandoli dalle compatibilità di bilancio che si traducono costantemente in tagli.
Temi vertenziali
1) Precariato e sistema di reclutamento: in questi anni i nostri settori sono stati luogo di sperimentazione per il precariato. Sia destra che sinistra politica, con la complicità di CGIL, CISL e UIL e la loro completa adesione al pacchetto Treu e alla riforma Biagi, hanno permesso alle amministrazioni e alle scuole di introdurre personale sfruttato. Il problema è in via di “risoluzione” nella scuola con il progressivo allontanamento dei precari. Nell’università e nella ricerca il fenomeno sebbene più lento è comunque in atto. Il comitato dovrà affrontare le seguenti questioni: definire precisamente il limite tra formazione e lavoro; sostituire il sistema malato del concorso pubblico, che in settori di formazione avanzata ormai costituisce una modalità clientelare, con un metodo di reclutamento più trasparente che si ponga come primo obbiettivo sanare la situazione attuale; impedire che si ricostituisca l’attuale sistema di precariato selvaggio.
2) Ordinamento: In modo particolare per Università e Ricerca l’ordinamento è un tema centrale della riforma che dobbiamo ambire. Per uscire dal sistema baronale va ristabilita la completa uguaglianza tra i professori università, senza inutili e classiste divisioni, e tra i III livelli dei ricercatori/tecnologi. Va ricercata anche una migliore definizione del personale di collaborazione tecnica ed amministrativa nei vari settori. Incentivare quei professori che esercitano esclusivamente all’università, rispetto a coloro che esprimono le loro professionalità soprattutto all’esterno. Definire con quali modalità un professore esplica la docenza e si spende preferenzialmente nella ricerca. Liberare le carriere delle mafie dei baronati.
3) La questione salariale: dal paragone dei nostri salari con quelli europei è chiaro che il sistema concertativo messo in piedi nel 1993 ha ridotto cospicuamente la nostra capacità di recupero dall’aumento del costo della vita. Il comitato deve poter mostrare e diffondere come questo sia accaduto anche nei nostri settori. L’uso del precariato con effetto calmierante e l’individualizzazione delle aspettative ha di fatto impoverito noi tutti. Per questo dobbiamo determinare come adeguare i nostri salari al livello europeo e individuare modalità trasparenti di progressione di carriera.
Strumenti
IL comitato favorirà la diffusione dei propri elaborati e proposte con tutti i mezzi che l’attuale condizione tecnologica mette a disposizione, attraverso filmati, convegni, pubblicazioni, periodici elettronici e discussione in rete.