Lunedì 1 ottobre molti giornali hanno pubblicato i dati di un'indagine dell'ISFOL che registra la condizione di povertà dei lavoratori precari. I dati evidenziano retribuzioni decisamente più basse rispetto lavoratori con contratto a tempo indeterminato con salari medi che non raggiungono i 1000 €, circa il 30% in meno rispetto a chi non ha un termine indicato sul contratto. Un differenziale per altro in crescita negli anni e che colpisce in particolare i più giovani.
ISFOL fotografa una condizione che i lavoratori precari ormai conoscono da molti anni e che come Unione Sindacale di Base denunciamo e combattiamo da quando si è cercato di spacciare i contratti atipici come trampolino di lancio per un lavoro stabile, come strumento per l'occupabilità dei giovani o di fasce ristrette di lavoratori, come leva per gli investimenti e l'aumento dei posti di lavoro.
Precarietà significa infatti basse retribuzioni ed introiti discontinui, tutele nel lavoro variamente ridotte e sottoposte al ricatto occupazionale, forte compressione dell'autonomia individuale e della libertà di scelta, e infine un mix esplosivo tra tempo libero imposto (e non liberato) e invasione del tempo di lavoro in quello del non lavoro.
Su un punto però bisogna fare chiarezza: i dati ISFOL non registrano un incidente di percorso, un'anomalia frutto di una politica incapace e attenta solo agli interessi della casta, ma l'esito di una politica economica che ha partire partire da alcune categoria sociali – giovani, migranti, donne – ha investito tutto il mondo del lavoro e la società in generale.
La precarietà è infatti la condizione strutturale attorno a cui si è riorganizzato negli ultimi 30 anni in Italia e nei Paesi Occidentali il sistema economico, il quale ha quindi modificato condizioni di lavoro e di vita degli individui. Si tratta del prodotto di processi di frammentazione, individualizzazione, deregolamentazione delle attività produttive e di un progressivo trasferimento del rischio d'impresa verso i lavoratori. Una socializzazione del rischio che solo gli ingenui o i politici in mala fede si ostinano a sostenere possa essere accompagnata da una nuova e più ampia redistribuzione della ricchezza, e che invece va di pari passo con la concentrazione dei patrimoni (l'Italia è il 4° Paese OCSE per disuguaglianze sociali) e la riduzione dello stato sociale.
Come USB abbiamo sempre detto che eravamo di fronte ad un processo che se non contrastato con forza e determinazione avrebbe travolto anche quei posti di lavoro considerati come garantiti.
Oggi, la riforma Fornero (art.18) e la Spending Review del ministro Patroni Griffi (licenziamento dei pubblici dipendenti) sanciscono la chiusura del cerchio.
La condizione precaria tende a farci sentire soli, colpevoli della propria situazione individuale e incapaci di costruire percorsi collettivi. Allo stesso tempo però, il suo carattere strutturale, pervasivo e comune, proprio il suo essere forma tipica (tutt'altro che “atipica”) dell'organizzazione del capitalismo contemporaneo può e deve diventare un elemento che unisce.
Come Unione Sindacale di Base crediamo che il processo di precarizzazione possa essere invertito solo se mettiamo al centro delle nostre rivendicazioni: 1. una vera democrazia sindacale e rappresentanza nei luoghi di lavoro (a partire dal privilegio di Cgil-Cisl-Uil di avere un terzo delle RSU garantito a prescindere dal voto dei lavoratori) oltreché in parlamento (riforma elettore in senso proporzionale); 2. il rilancio dei contratti nazionali ed uguali tutele per tutti i lavoratori a prescindere dalla loro occupazione; 3. un salario minimo garantito che tuteli dalla corsa al ribasso; 4. un reddito minimo garantito che vada a ridefinire gli attuali ammortizzatori sociali troppo selettivi, inadeguati e per pochi.