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Sul lavoro agile e sulla sicurezza (alcune considerazioni dopo l’incontro tra RSU ed Amministrazione del 20.05.2020)

Terni,

Mentre il Governo sembra voler puntare sullo smart working nella Pubblica amministrazione, non mancano resistenze a questo importante cambiamento. Abbiamo preso atto che in pochi mesi è cambiata di 180 gradi, almeno negli intenti, la politica del lavoro pubblico, passando dalle ormai note logiche di contrasto ai “furbetti” (mediante impronte digitali o analisi dell’iride) non prive di connotazioni populiste, alla scommessa sulla digitalizzazione, sulla capacità di valutare effettivamente i risultati e sullo smart working. Sarebbe un passo decisivo verso una P.A. davvero nuova, verso una concezione del lavoro adeguata agli inevitabili adattamenti imposti dalle tecnologie e dai tempi. Tra i costi che affrontano cittadini e imprese, nel loro rapporto con la P.A., oltre a imposte e tasse, vi è il tempo che si impiega per l’accesso degli utenti a uffici e sportelli. Tempo e costo degli spostamenti, tempo e costo per l’attesa in fila, tempo e costo per la relazione diretta presso l’ufficio, tempo e costo per il rientro. Il tutto, peraltro, schiacciato necessariamente entro le fasce dell’orario di “ricevimento del pubblico”, che stringono il collo di bottiglia, rendono le file più assembrate e scomode, allungando a dismisura i tempi per l’attesa. Il lockdown ha dimostrato che un deciso mutamento è possibile, al di là di tutte le resistenze che in questi anni si sono opposte con estrema fermezza alla semplificazione, alle autocertificazioni, al codice dell’amministrazione digitale, alla digitalizzazione dei servizi. Il lavoro agile, che l’articolo 14 della legge 124/2015 aveva provato a rendere obbligatorio per almeno il 10% dei dipendenti pubblici entro il 2018 (obiettivo davvero minimale), ancora fino al 10 marzo 2020 era, tranne rarissime eccezioni, come la mosca bianca. Con la sua applicazione obbligatoria nella fase pandemica si è dimostrato che la sua sostanziale inattuazione nella P.A. era frutto non di impossibilità oggettiva, ma di pigrizia organizzativa e mancanza di volontà. E’ vero che l’assenza di investimenti, unita alla situazione emergenziale, ha prodotto il paradosso che il legislatore abbia dovuto chiedere ai dipendenti pubblici di mettere a disposizione i loro PC, i loro smartphone, le loro connessioni, mentre non tutti gli applicativi informatici erano pienamente disponibili in rete; allo stesso modo, mancavano reti virtuali efficienti e sicure. Ma, in pochi giorni, le PA hanno compiuto passi da gigante, tutti quei passi che nei cinque anni precedenti si erano ostinate a non compiere. Il lavoro agile “non si sostanzierà solo in un ‘lavorare da casa’, è probabile che sarà supportato anche da postazioni di co-working”, cosa che si è resa difficile durante il lockdown. A regime tutto potrebbe funzionare diversamente. Il co-working consente al dipendente dell’ufficio A di lavorare anche se si trovi nell’ufficio B, in altra sede, in altro luogo; e potrebbe lavorare persino in una sede privata, considerata idonea e sicura. Si pensi alla possibilità per le grandi città di evitare il traffico e l’inquinamento dovuto a spostamenti di dipendenti pubblici da un quadrante all’altro, senza incidere sull’efficienza. Per raggiungere tali obiettivi, già realtà in molti Paesi d’Europa, è necessario ciò che afferma la Ministra Dadone e cioè "un cambio di mentalità, nella formazione del personale e nel ruolo dei dirigenti. Chi lavorerà in smartworking e per quanto tempo lo decideranno le diverse amministrazioni", ma è imprescindibile che gli investimenti vadano "in questa direzione, per fare formazione e dotare di strumenti adeguati la Pubblica amministrazione". Il cambio di mentalità è però fondamentale: la semplificazione, la dematerializzazione degli atti e la digitalizzazione dei procedimenti, una diversa idea e valore rispetto all’obbligo della presenza fisica in sede e della timbratura, troppo spesso sostitutivi della concreta ed utile attività. La P.A. si è invece troppo abituata a vivere nel giorno per giorno, senza programmazione, senza considerare le potenzialità di ciascun dipendente, spesso svilite da inesistenti opportunità di crescita professionale. Lo smart working può diventare lo strumento fondamentale per distaccarsi da queste logiche “analogiche” del lavoro. Come è noto, il decreto “rilancio” all’articolo 263 consente un parziale allentamento del lavoro agile, in funzione della riduzione della rigorosità delle misure di distanziamento sociale, ma già in tantissime amministrazioni lo si legge come una sorta di “liberazione dallo smart working”, con tanto di esultanza per il “rientro in ufficio”. Il cambio di mentalità e gli investimenti, dei quali parla il Ministro, sono invece la chiave di volta. In virtù di quanto detto, ci appaiono sinceramente non logici i tentativi di imbrigliare, questa nuova opportunità lavorativa, all’interno di schemi rigorosi che si sostanziano esclusivamente in percentuali predefinite di lavoratori destinati a lavorare da casa o in presenza, senza un’adeguata analisi di un nuovo modello organizzativo che ponga al centro i servizi da erogare e i bisogni del cittadino-utente. E’ questo il momento di praticare un nuovo approccio organizzativo e lavorativo, adesso, non fra qualche mese. Per fare questo è necessario condividere, fin da ora, un percorso che conduca, entro tempi prestabiliti, alla redazione di un regolamento sullo smartworking per la fase post-emergenziale, senza intestardirsi su percentuali e numeri di dipendenti coinvolti. Relativamente al punto sulla sicurezza,sono emerse alcune problematiche, che a nostro avviso, devono essere assolutamente affrontate e corrette per evitare di esporre ad inutili rischi alcuni lavoratori. Ci riferiamo, in primis, alla proposta di prevedere l’istituzione di postazioni di controllo della temperatura corporea presso le varie sedi della Giunta. Su questo punto la nostra posizione, già chiaramente evidenziata negli ultimi due incontri con l’amministrazione, è chiara ed inequivocabile: consiste semplicemente nell’ottemperare a quanto previsto nel D.Lgs. n. 81/2008, oltre che nei vari D.P.C.M. che si sono susseguiti dal mese di Febbraio. Il principio a cui si deve tendere deve essere quello della minimizzazione dell’esposizione al rischio di contagio per tutto il personale regionale. Questo principio deve essere posto a salvaguardia di tutte le categorie di lavoratori, a prescindere dall’ubicazione e dalla dimensione della sede in cui prestano servizio, ed indipendentemente dal numero di utenti esterni che accedono alla sede in questione. Ricordiamo in proposito, che il datore di lavoro, chiamato ad individuare le misure di prevenzione e di protezione in collaborazione con l’RSPP e con il medico competente, non ha mano libera nella scelta delle misure da attuare: Il D.Lgs. n. 81/2008, infatti, non prevede, come principio cardine del nostro sistema di sicurezza sul lavoro, un ambiguo “principio generale di proporzionalità tra entità del rischio e livello delle azioni da porre in essere”, pur evocato da taluno, bensì il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile (v., in particolare, artt. 15, comma 1, lett. b), c), e), g), h), i), e 18, comma 1, lett. z, D.Lgs. n. 81/2008). A supporto di quanto sopra affermato, vale inoltre la pena ricordare, che la Corte di Cassazione si è espressa più volte in merito: Cass. 3 febbraio 2016, n. 4501 “Il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. L’art. 2087 c.c., infatti, nell’affermare che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, stimola obbligatoriamente il datore di lavoro ad aprirsi alle nuove acquisizioni tecnologiche”. Cass. 2 febbraio 2016, n. 4325 “Allorquando l’imprenditore disponga di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi, è tenuto ad adottare (salvo il caso di impossibilità) quello più idoneo a garantire un maggior livello di sicurezza: trattasi, invero, di principio cui non è possibile derogare soprattutto nei casi in cui i beni da tutelare siano costituiti dalla vita e dalla integrità fisica delle persone”. Anche se è il caso di precisare che il datore di lavoro non è tenuto a creare un ambiente lavorativo a “rischio zero”, pur tuttavia, “se il rischio è esistente, ne discende l’obbligo di adottare le misure necessarie a fronteggiarlo, eliminandolo o, se non possibile tecnicamente, riducendolo” (Cass. pen. 12 luglio 2019, n. 30633). Ciò premesso, siccome riteniamo che, a nostro avviso, non sia nelle intenzioni di questa amministrazione esporre ad inutili rischi i propri dipendenti, siamo certi che possa far tesoro in anticipo dei nostri suggerimenti, al fine di procedere ad un adeguamento della bozza del protocollo della sicurezza, provvedendo all’installazione delle idonee strumentazioni tecnologiche fisse, per la rilevazione della temperatura dei dipendenti, nelle varie sedi della Giunta regionale.

Un saluto

Alessandro Broccolini

Graziella Cetorelli