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Commercio, GDO

COOP E LA NUOVA FRONTIERA DEL PRECARIATO A TEMPO INDETERMINATO

Roma,

La vicenda delle lavoratrici Coop licenziate a Livorno e provincia dopo un lunghissimo precariato si è conclusa nel peggiore dei modi, con una “STABILIZZAZIONE PRECARIA”.

Le lavoratrici sono state assunte con dei contratti a tempo indeterminato ma per soli 5 mesi l’anno, con una formula di “part-time verticale annuo” che prevede appunto che la riduzione oraria rispetto al normale contratto full-time non si applica orizzontalmente mese per mese ma si calcola invece su base annua: 5 mesi di lavoro full-time, 7 mesi a casa.

 

Dopo la Via Crucis precaria di questi lavoratori, la maggior parte dei quali sono donne e madri, (diversi toccano gli 8-9 anni di contratti a termine a ripetizione), e aver firmato nel marzo 2012 un accordo con i sindacati che prevedeva la loro stabilizzazione, a dicembre 2012 Unicoop Tirreno comunicava l’intenzione di non assumere 47 lavoratori dei negozi toscani. Nonostante l’accordo suddetto e soprattutto nonostante il fatto che queste persone avessero già ampiamente superato i termini per l’assunzione obbligatoria di legge (36 mesi).

 

Alla reazione rabbiosa dei lavoratori culminata in uno sciopero di fine anno, in occasione del quale l’azienda decise di ricorrere anche al “lavoro comandato” impedendo di fatto il costituzionale diritto di sciopero,  Unicoop Tirreno ha proceduto a queste assunzioni senza farle precedere da un accordo con i sindacati che potesse in qualche maniera individuare delle forme di tutela per queste persone almeno in chiave futura. L’azienda ha infatti chiamato le dipendenti direttamente nella propria sede di Vignale Riotorto (LI) per proporre loro i contratti suddetti con una formula spietata: prendere o lasciare. E facendoli addirittura precedere da scritture private con le quali le lavoratrici si impegnavano, in sostanza, a non adire vie legali per ottenere ciò che gli spettava di legge.

 

Quali sono i danni e le beffe di questo tipo di contratto? Il primo è evidentemente quello dei 7 mesi senza stipendio: sei fisso, ma la busta paga la prendi solo per cinque mesi in un anno. Si tratta di una forma di assunzione che rende queste persone stagionali a vita, visto che lavoreranno in precisi momenti dell’anno e solo in quelli, per sempre (o almeno fino a che un’azione sindacale non riuscirà a migliorare questi contratti). Il secondo è che, rispetto a prima, perderanno la possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, visto che adesso hanno un contratto a tempo indeterminato. Prima, avendo contratti a termine, avevano diritto alle indennità di disoccupazione quando i contratti scadevano, ora non più, con il paradosso che il contratto fisso comporterà una riduzione del loro monte salariale complessivo in confronto a quando lavoravano a termine. La terza beffa è legata al peggioramento rispetto al diritto all’assunzione che queste persone avevano maturato nel corso degli anni, e agli accordi sindacali del marzo 2012: da una media di circa 1200 ore annue di lavoro spalmate su tutti i mesi, passano infatti adesso a poco più di 800 ore concentrate su 5 mesi. Il quarto inconveniente riguarda le scarsissime possibilità per le neo assunte di trovare un altro impiego complementare per migliorare la loro pessima condizione salariale dovuta al fatto che riscuotono uno stipendio solo per cinque mesi all’anno. Quale altra azienda infatti le assumerebbe sapendo che potrebbero lavorare solo in alcuni mesi e in altri no? Un ulteriore esempio del perché questi contratti sono da considerare dei veri e propri cappi intorno al collo delle persone.

 

La Coop, così come molte altre aziende, sembra aver individuato una nuova frontiera della precarietà: quella dei contratti a tempo indeterminato ma con numero di ore e modalità assuntive tali da renderli contratti comunque altamente instabili. E’ ad esempio il caso recente delle pubblicità di McDonald’s che annunciavano a gran voce le assunzioni a tempo indeterminato in Italia, omettendo che si tratta di contratti a pochissime ore settimanali, che ovviamente caratterizzano tale impiego come un lavoro destinato ad essere necessariamente lasciato dal dipendente visto che con 500 euro non si campa e visto che avere un impiego part-time compromette fortemente le possibilità di trovare un altro lavoro (le aziende richiedono disponibilità massima, se uno ha già un impiego part-time parte con un handicap che non lo rende “abile” all’assunzione), e quindi poco importa se il contratto è a tempo indeterminato.

 

Rischiamo di andare incontro ad una nuova era (che a dire il vero molte aziende conoscono già da anni, quindi tanto nuova non è), quella in cui le imprese, soffrendo gli attacchi dell’opinione pubblica riguardo alla precarietà e all’abuso di contratti a termine, assumono sì a tempo indeterminato (magari anche per riscuotere gli incentivi previsti dalle legislazioni su vari livelli), ma lo fanno con forme contrattuali che mettono spalle al muro i lavoratori e li impiccano ad una esistenza fatta di sfruttamento e condizioni di vite lavorative impossibili. Tutto questo, consentito da un quadro normativo lavoristico ignobile, sostenuto nel corso degli anni (oltre che dal centrodestra e dai governi tecnici come è nella loro natura) anche da un centrosinistra che infatti paga dazio nelle consultazioni elettorali in quanto soggetto politico lontanissimo dalle esigenze di chi lavora e di chi, non lavorando, vorrebbe farlo in maniera quantomeno dignitosa.

 

USB Lavoro Privato rigetta al mittente questa idea di sfruttamento, pronta a rilanciare le mobilitazioni nel settore per rimettere al centro la difesa e la riconquista del CCNL, dei diritti, del salario e della democrazia sindacale.