EDITORIALE
Sicurezza
Ancora uno speciale sullo stato della sicurezza nei nostri posti di lavoro
Dopo lo speciale di ottobre, dedicato all’incidente
di questa estate avvenuto sulla Circumvesuviana,
riprendiamo i motivi e gli argomenti che ci
avevano spinto a trattare isolatamente quell’avvenimento:
il cosiddetto “errore umano” e la “tragica fatalità”.
Due termini che spesso vengono usati per assolvere
chi, nell’organizzazione del lavoro, dovrebbe
invece assicurare che determinati eventi non avvengano;
ma nella cultura della prevenzione degli infortuni
e degli incidenti sul posto di lavoro si lascia
troppo spazio al “destino” o al “fattore umano” piuttosto
che spendere (nel senso letterale del termine)
per evitare la scia di sangue e morti comune a tutto il
mondo del lavoro in Italia.
Per un Presidente della Repubblica che alza il
volume della sua voce istituzionale per pretendere la
sicurezza per chi lavora fa da contrappunto un Ministro
dell’Economia che sostiene che quella sicurezza,
sui posti di lavoro, in Italia non ce la possiamo permettere.
Anche se in questi giorni siamo tutti, giustamente,
attratti dal gran rumore che fanno le indiscrezioni,
le voci, i sussurri sul prossimo contratto ricordiamoci
di chi ha già perso il diritto a un lavoro sicuro,
a tornare a casa da chi lo aspetta.
Ricordiamocene quando dovremo lottare per
non perdere quel poco che ci rimane ancora da difendere.
Scendiamo da quel treno che viaggiava sulla
Circumvesuviana di Napoli e volgiamo il nostro
sguardo ai binari, a quegli uomini che stanno lavorando
sulle rotaie, a quei nostri compagni di lavoro
nell’esercizio ferroviario.
Roberto Testa
In questo numero:
SICUREZZA
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I lavoratori della manutenzione
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numero 4/2010
SPECIALE
SICUREZZA
I lavoratori della manutenzione
Incontriamo un gruppo di lavoratori e delegati della Manutenzione Infrastrutture - Lavori e
Impianti Segnalamento: con loro ci conosciamo bene dai tempi dellʼAssemblea Nazionale
dei Ferrovieri, durante il licenziamento di Dante De Angelis, e dai tristi giorni in cui si formò
il Comitato per la Verità sulla morte di Massimo Romano
Domanda: Volete ricordarci chi era Massimo?
Risposta: Massimo era un nostro collega del
Tronco Lavori di Monterotondo DTP Roma, aveva
moglie e due figli di 8 e 12 anni, quando è morto
travolto da un treno sulla linea Roma-Fara Sabina
aveva 46 anni. Era di Avellino e fu assunto in RFI
nel 2005, proveniente da una società che gestiva per
conto di FS i passaggi a livello; aveva dunque lunga
esperienza del mondo ferroviario anche se in quel
particolare settore. La mattina del 15 novembre
2006 si trovava con un martello pneumatico sulla
massicciata intento a demolire una passerella in
asfalto che attraversava il binario, un’attività propedeutica
al risanamento della massicciata che sarebbe
avvenuto nei giorni successivi ad opera della
ditta SALCEF, altri suoi compagni erano impegnati,
lì vicino, sul binario attiguo in mansioni di scorta
alla stessa ditta che stava procedendo con altre lavorazioni
già in corso. Quando è sopraggiunto il
treno Massimo si trovava sul lato esterno del binario,
su un tratto all’uscita di una curva, ed è stato
colpito alla testa dal predellino del locomotore rimanendo
ucciso sul colpo; stava lavorando senza
che fosse stata predisposta la protezione prevista
dall’Istruzione Protezione Cantieri. Un fatto assurdo
eppure, allo stesso tempo, non unico né raro nell’attuale
scenario operativo della Manutenzione Infrastrutture,
in cui registriamo uno svuotamento degli
impianti per il mancato turn-over degli operatori,
frutto di una politica occupazionale in linea con il
massiccio processo di esternalizzazione delle attività.
D: Cosa è cambiato da quei giorni del 2006? Si
sono verificati altri incidenti con dinamiche simili?
R: Quando parliamo di attuale scenario operativo
intendiamo un progetto aziendale iniziato diversi
anni fa e che puntava ad una struttura operativa
di esercizio “leggera”, appunto con personale e
risorse strumentali ridotti all’osso; questo processo
ha avuto esito compiuto in una organizzazione del
lavoro che di fatto si è persa dei pezzi per strada: in
fatto di qualità del servizio prodotto e, cosa assai più
dolorosa, sulla sicurezza dei lavoratori. Le attività di
manutenzione dell’infrastruttura ferroviaria sono
regolamentate da norme con rigidi criteri per la protezione
degli operatori, soprattutto quando queste si
svolgono in regime di circolazione treni; sulla carta
il meccanismo ha una sua compiutezza che lascerebbe
poco o niente spazio all’incidente ma, in funzione
del fatto che la protezione presuppone l’impiego
“improduttivo” di certe quantità di operatori, in
certi casi la prassi si è dovuta conformare alla sintesi
della seguente contraddizione: “o ci si protegge o
si lavora”, e si è quindi oggi consolidata nella mediazione:
con un occhio si lavora con l’altro ci si
protegge. La riduzione drastica di personale a fronte
dell’aumento della circolazione treni nelle fasce diurne
ha determinato l’incremento delle lavorazioni
notturne e in orario straordinario con la conseguente
riduzione dei tempi di riposo tra prestazione successive
e anche un utilizzo contrattualmente illegittimo
del personale che viene spostato alla bisogna
da un impianto all’altro. Il risultato è che dal 2006
ad oggi, solo nella Direzione Territoriale Produzione
Roma, altri tre colleghi sono morti sul lavoro in
circostanze analoghe a quelle di Massimo Romano e
numerosi incidenti anche gravi e pericolati d’incidente
continuano a verificarsi. Nella dimensione nazionale
dell’azienda abbiamo avuto negli ultimi 4/5
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anni 34 ferrovieri della manutenzione morti sul lavoro;
quasi un incidente mortale al mese!
Allora, capisci da solo che cosa è cambiato, e
soprattutto in quale senso, dalla morte di Massimo
ad oggi!
D: Quanti di questi incidenti sono: “errore
umano” o “tragica fatalità”, riconducibili alle classiche
espressioni di autoassoluzione di chi gestisce
l’organizzazione del lavoro?
R: Già all’indomani dell’incidente in cui è
morto Massimo, in azienda son cominciate a girare
versioni che gli imputavano una responsabilità più o
meno diretta sui fatti. Versioni strampalate e contraddittorie
che alle nostre orecchie sono suonate
subito come un allarme di pericolo depistaggio delle
indagini e insabbiamento delle vere responsabilità.
Questa strategia ha toccato l’apice dello squallore
quando è cominciata a circolare la voce insinuante
che Massimo stesse lavorando direttamente al soldo
della ditta Salcef, per cui si sarebbe assunto delle
gravissime responsabilità trasgredendo alle regole
dell’azienda. L’assurdo era che si trattava appunto
di voci (la cosiddetta voce della rotaia) che circolavano
in modo trasversale dagli ambiti apicali a
quelli più esecutivi dell’azienda, stratificando false
convinzioni soprattutto (ma questo era l’obiettivo
della strategia) tra i lavoratori stessi. Rispetto a questo
fatto non si può sorvolare su una considerazione,
e cioè che la supposta azione di depistaggio si compiva,
e solo così poteva essere, nella quasi totale assenza
di un intervento delle organizzazioni sindacali.
Nella DTP Roma lavoravano nel 2006 circa 1.700
ferrovieri (oggi ridotti a più o meno 1.200) sparsi su
un territorio che abbraccia due regioni (Lazio e
Abruzzo); né all’indomani dell’incidente né tantomeno
nei mesi successivi fu organizzata almeno
un’assemblea informativa tra i lavoratori; un vuoto
enorme. In questo scenario partendo dalla volontà
di alcuni membri delle RSU/RLS è nato il “Comitato
per la verità sulla morte del ferroviere Massimo
Romano”, una struttura associativa libera che ha
raccolto nel tempo molte adesioni tra i ferrovieri,
altri lavoratori, associazioni dei familiari dei morti
sul lavoro, con lo scopo di contribuire ad acclarare
responsabilità ed evitare l’oblio sulla storia del nostro
collega. Sia detto per inciso che noi siamo convinti
del nesso causale tra organizzazione del lavoro
e infortuni dei lavoratori, la tesi dell’errore umano è
una mistificazione dei fatti grossolana anche alla
semplice luce della legislazione in materia; è civilmente
talmente naturale il diritto di un umano a
sbagliare senza che questo debba costargli la vita o
l’amputazione di un arto o chissà cosa, che la responsabilità
del datore di lavoro è centrale nella
gran parte delle leggi per la sicurezza dei lavoratori
(tenendo a parte il discorso sulle malattie professionali).
Purtroppo ciò è si necessario ma non sufficiente
di fronte al disarmo delle organizzazioni dei lavoratori
e all’attacco congiunto di governi e impresa
al diritto del lavoro. Le successive riorganizzazioni
delle FS in senso privatistico (ricerca ossessiva dell’abbattimento
dei costi) hanno generato delle strutture
produttive in cui è scemata la garanzia della sicurezza,
per chi lavora sopra i treni o sui binari, e in
cui si è diffusa una brutta cultura di tolleranza dei
rischi.
D: Ci sono state cause giudiziarie o processi
che hanno stabilito le responsabilità in questa lunga
catena di morti che ci avete raccontato?
R: A poco più di un anno dalla morte di Massimo
Romano ancora a Roma abbiamo avuto un altro
atroce incidente mortale: Anthony Forsight, un
apprendista di 26 anni, la notte del 10 dicembre
2007 restò travolto da un Eurostar a Torricola, sulla
linea Cassino, sbalzato contro un palo della linea
elettrica morì quasi sul colpo. Era stato chiamato a
mezzanotte in reperibilità per un guasto, e il suo impegno
di lavoro complessivo nella giornata aveva
superato il limite consentito in assenza del riposo di
almeno 8 ore consecutive. Anche qui si parlò subito
di sue responsabilità, perché, correva voce, stesse
camminando vicino al binario. Ma noi lavoriamo
sui binari! Il fatto che stesse isolato e non protetto
pur essendo apprendista non suscitò grandi interropag.
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gativi nell’inchiesta interna e lo stesso processo non
ha visto finora nessun imputato, né di rango apicale
né altro. Ci fu anche un tentativo
di archiviazione sventato
dal legale dei familiari e
il processo è ancora in corso.
Per la morte di Massimo
sono stati invece imputati
due dirigenti, un capo impianto
e un operaio. In
udienza preliminare, a distanza
di quasi tre anni dall’incidente, il più alto dei
due dirigenti, il direttore compartimentale cioè il datore
di lavoro, è stato prosciolto e invece rinviati a
giudizio gli altri tre: ad oggi non ha ancora avuto
inizio l’iter dibattimentale del processo. Bruno Pasqualucci,
collega di 62 anni prossimo alla pensione,
rimase travolto da un mezzo d’opera durante
l’inizio delle lavorazioni la notte del 23 ottobre scorso,
era alla sua terza prestazione notturna consecutiva
nella settimana. È morto il 25 novembre dopo
un mese di agonia in ospedale: il processo deve ancora
iniziare e non risultano essere stati indagati dirigenti
o altri, e stando alle nostre informazioni non
ve ne saranno; ergo Bruno è colpevole della sua
stessa morte sul lavoro. La notte del 18 dicembre
scorso il nostro collega del servizio IS di Rocca Secca
Armando Iannetta di 57 anni morì sul colpo travolto
da un treno sulla Roma - Napoli durante un
intervento di reperibilità, un incidente fotocopia di
quello occorso ad Anthony Forsight: anche in questo
caso si è subito parlato di un suo comportamento
colposo; il processo deve ancora iniziare e ufficialmente
non si sa nulla dell’inchiesta aziendale, ancora
una volta il vuoto enorme dell’assenza d’intervento
sindacale. Per capire bene queste dinamiche
aziendali è istruttivo il caso di Motta S. Anastasia:
due colleghi del servizio Lavori furono investiti e uccisi
sui binari nei pressi della stazione; il giorno
stesso, con folgorante tempismo, l’A.D. Moretti dettò
un’agenzia stampa in cui si diceva testualmente: “…
ora capiamo perché i ferrovieri finiscono sotto il treno:
perché non rispettano la normativa di sicurezza
emanata dalla società…”. Si riferiva al fatto che la
squadra stava operando
senza aver esposto le tabelle
di segnalamento prescritte
dall’Istruzione Protezione
Cantieri e probabilmente
con un sistema di protezione
inadeguato. Ma quello che,
naturalmente, ometteva in
quella nota stampa è che,
come già detto, tali prassi operative sono diventate
da tempo una necessità dovuta alla scarsità cronica
di personale, cosa di cui i dirigenti territoriali, ma
anche quelli centrali, sono ben a conoscenza essendo
ciò il risultato del progetto aziendale di “alleggerimento”
organizzativo di cui sopra. Inoltre tra le
RSU/RLS si trova ancora qualcuno che da anni si
sta sgolando a dire che così non si può lavorare (a
Roma siamo anche riusciti a far sanzionare l’azienda
per il mancato rispetto della legge sui riposi), ma
nel complesso l’azienda è blindata dietro un muro di
gomma che il sindacato e ormai anche i lavoratori,
in qualche modo, contribuiscono a tenere in piedi.
Tornando a Motta S. Anastasia gli unici imputati
(poi condannati), sono stati due colleghi dei ferrovieri
morti. Siamo fortemente convinti che per sconfiggere
questa filosofia bisogna combattere gli atteggiamenti
di conformismo che vigono nella nomenclatura
aziendale e sindacale, nonché tra i lavoratori
stessi; bisogna ripartire dalla volontà e dalla
capacità dei singoli di battersi per una nuova visione
di civiltà del lavoro.
D: In un vostro intervento sulla Newsletter passata
avete parlato di esternalizzazioni e politiche solo
di facciata di riacquisizione delle lavorazioni. Quanto
può incidere una scelta di questo tipo sul mantenimento
degli standard di sicurezza?
R: Il tema dell’esternalizzazione delle attività è
centrale nel confronto delle relazioni industriali, e
ciò è naturale visto che incide pesantemente sui livelli
occupazionali interni ad RFI. Ad ogni grande
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appuntamento di trattativa nazionale, vuoi per rinnovi
di contratto o per la stipula di accordi quadro,
si parla di reinternalizzare attività. Ma la cosa ormai
è divenuta farsesca e abbiamo capito che gli obiettivi
di reinternalizzazione aziendale convergono su
quelle attività che le società private non trovano più
convenienti economicamente. Per esempio nel nostro
settore il livellamento sistematico del binario è
una delle attività che si vorrebbe riacqusire; possiamo
dire con certezza che per una ditta privata, la
quale cerca il massimo profitto d’impresa, questa
attività è sconveniente in quanto, a fronte della scarsa
disponibilità delle fasce di interruzione della circolazione
treni, le possibilità d’intervento con questi
macchinari costosissimi si frammentano e ciò produce
una diseconomia organizzativa che il privato
non accetta. Questa è la realtà, ma si continua a
spacciare questa riacqusizione di attività come una
grande vittoria che tra l’altro l’azienda non riesce a
gestire per mancanza di mezzi e risorse umane necessarie.
Siamo pronti a scommettere sul fatto che
ciò produrrà una scadenza dei livelli di manutenzione
dell’infrastruttura e porterà a nuovi e più convenienti
(per il privato) contratti d’appalto. L’espansione
del privato nelle attività di manutenzione ferroviaria
ha inciso negativamente sugli standard di
sicurezza, che molto dipendono anche dalla specificità
della normativa che regola le procedure di specifiche
attività. I ferrovieri sono tutti abilitati attraverso
corsi di formazione all’esecuzione delle mansioni
da svolgere, e fanno riferimento ad un contratto
che è specifico delle attività ferroviarie. Il privato
entra in questo mondo con maestranze che fanno
riferimento contrattuale alle più disparate categorie
merceologiche (dall’edile al metalmeccanico passando
per il commercio, più varie ed eventuali), e
per di più sottoposte alle pressioni economico-organizzative
degli obiettivi di profitto della ditta; chi ha
visto il film del regista inglese Ken Loach, “Paul,
Mick e gli altri”, si è potuto fare un idea precisa di
tutto questo. Teniamo presente che la penetrazione
del privato nelle attività ferroviarie è un preciso progetto
politico nel nostro Paese e che ciò corrisponde
ad una volontà di abbattere i livelli di tutela dei ferrovieri,
con l’accettazione implicita della scadenza
degli standard di sicurezza sul lavoro. Nel transitorio
di questa progettualità si genera la brutta cultura
della in-sicurezza di cui parlavamo prima.
D: Apprendistato: in RFI, come d’altronde in
tutta la holding FS, c’è un grosso incremento dell’uso
di questo strumento contrattuale. Quali risvolti
determinano sulle lavorazioni che eseguite e sul sistema
di sicurezza del lavoro che le deve proteggere?
Un lavoratore in condizione di apprendistato professionalizzante
può essere un anello debole nella
catena della sicurezza e perché?
R: Nel contesto organizzativo che abbiamo genericamente
delineato l’inserimento di giovani in
contratto di apprendistato è assolutamente fraudolento.
Un apprendista, soprattutto in un settore ad
alta incidenza di rischi, dovrebbe essere considerato
uno di più sull’organico necessario allo svolgimento
delle attività, che sia in affiancamento per tutta la
durata del suo contratto. Invece attenendosi solo genericamente
alla legge (ma anche questa è lacunosa
per lo specifico ferroviario) l’azienda procede ormai
ad assunzioni (con il contagocce) esclusivamente
con contratti d’apprendistato, sfrutta le convenienze
economiche di questa tipologia contrattuale, inserisce
questi giovani in impianti con fortissime carenze
d’organico e quindi li utilizza alla stregua di un
qualsiasi ferroviere a tempo indeterminato, facendo
anche leva sul potere ricattatorio derivante dalla
scadenza del contratto stesso per ottenere la “consensualità”
del lavoratore apprendista stesso. Abbiamo
avuto casi di apprendisti licenziati alla scadenza
del contratto perché, nell’arco di 4 anni, avevano
osato parlare di diritto sul lavoro. È palese
l’intento fraudolento di questa politica occupazionale.
Per la ricaduta sui livelli di sicurezza valga su
tutte le chiacchiere ciò che abbiamo già detto sul
povero Anthony.
D: In vista di un nuovo CCNL che cosa dovrebbe
essere, per il vostro settore specifico, irrinunpag.
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ciabile (o non sottoscrivibile) da un’organizzazione
sindacale?
R: Il tema del rinnovo contrattuale ci pone delle
riflessioni di merito e di metodo. Sul metodo possiamo
essere più argomentativi in quanto sul merito,
a quattro anni dalla scadenza del CCNL della Attività
Ferroviarie, conosciamo davvero poco del nuovo
strumento contrattuale. Ma detto ciò abbiamo detto
praticamente tutto sulla questione del metodo; è
inaccettabile che in uno scenario di disarticolazione
di fatto dell’organizzazione del lavoro quale quello
attuale nelle ferrovie il sindacato si arroghi il diritto
di gestire rinnovi contrattuali in assenza del consenso
informato dei lavoratori. È quello che sta avvenendo
e la nostra preoccupazione è che nel nuovo
contratto vengano sancite le pratiche organizzative
che abbiamo finora contestato (allungamento dell’orario
di lavoro, accettazione di bassi livelli occupazionali,
flessibilità nell’utilizzo del personale, cessione
di attività o addirittura di rami d’azienda, etc).
Abbiamo letto l’articolato dei 4 punti del nuovo
Contratto della Mobilità firmato nei giorni scorsi: ci
conferma in pieno le nostre preoccupazioni; come
rappresentanti dei lavoratori verremo privati delle
residue capacità di trattativa sull’organizzazione del
lavoro essendo tutto lo scibile contrattuale in capo ai
livelli nazionali, non potremo neppure indire un’assemblea
dei lavoratori durante l’orario di lavoro
perché ci vorrà il consenso di tutte le organizzazioni
regionali, non si potrà di fatto più scioperare in virtù
di una clausola sulla gestione dei prossimi rinnovi
contrattuali. Insomma un disastro tutto informato
dall’accordo firmato nel 2008 da Cisl, Uil & Co.
con il governo sul nuovo modello delle relazioni industriali:
lo scippo ai lavoratori del potere contrattuale
da parte di un comitato di affari formato da
imprese e sindacato, i cosiddetti enti bilaterali. Come
rappresentanti dei lavoratori avremmo voluto
essere coinvolti nel processo di costruzione di una
piattaforma rivendicativa che contrastasse la perdita
di posti di lavoro, la tendenza alla sottrazione di diritti
normativi ed economici (p. es. anche con l’incremento
delle competenza d’indennità ferme a 15
anni fa, dei buoni pasto, oltre naturalmente agli aumenti
stipendiali), la deriva organizzativa con l’incremento
dell’orario di fatto nelle prestazioni diurne
e notturne con prestazioni sui riposi, con la contrazione
stessa dei riposi giornalieri, che tanto ci costano
in termini di tutela della salute e della sicurezza,
l’utilizzo sfrenato del mercato del lavoro nelle
assunzioni, e tanto altro che pervade il quotidiano
del nostro lavoro in termini di mancanza di risorse
strumentali e progressiva perdita di dignità professionale.
Ancora per fare un esempio, a fronte dell’inserimento
di nuove tecnologie nel sistema delle
infrastrutture ferroviarie non è corrisposto il riconoscimento
dell’acquisito livello di professionalità dei
ferrovieri che vedono banalizzato il loro decisivo
contributo al funzionamento di apparati molto complessi
e delicati per la regolarità e la sicurezza della
circolazione dei treni. Semplici operai che svolgono
mansioni degne di tecnici ad alta specializzazione e
questo in una situazione in cui esistono già diverse
carenze anche tra i profili intermedi (tecnici, capi
tecnici, capi impianto); e ancora ci si viene a parlare
di contratto d’apprendistato. Il mondo del lavoro è
nella sua generalità sotto attacco di una classe politico-
imprenditoriale dalle scarse vedute strategiche
e miserabile nelle sue prospettive esistenziali, è questo
che determina la tendenza al sottosviluppo economico
e sociale del nostro Paese. Una fase di rinnovo
contrattuale in una grande impresa nazionale è
senz’altro il termometro per misurare lo stato di salute
della democrazia di un Paese; alla luce di questa
considerazione l’attuale fase nelle ferrovie ci appare
davvero preoccupante. In conclusione ribadiamo
la nostra convinzione sulla necessità di ripartire
dalla volontà dei singoli di immaginare nuove prospettive
di dignità del lavoro e battersi per la ricostruzione
di efficaci strumenti di autotutela dei ferrovieri
all’interno della nostra azienda.
intervista di Redazione
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