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DDL Concorrenza

DDL Concorrenza, la questione portuale e l’articolo 3

Civitavecchia,

Il DDL Concorrenza 2022 presentato dal governo e i successivi emendamenti presentati in Senato da alcune forze parlamentari stanno suscitando preoccupazione e provocando reazioni tra i lavoratori portuali di tutto il Paese. Le modifiche che vengono apportate alla legge 84/94 - che regolamenta le attività degli scali italiani - sono principalmente due: da un lato si prevede un depotenziamento delle Autorità di Sistema Portuale nella gestione delle concessioni in esclusiva delle aree demaniali, dall’altro si prevede la possibilità, finora vietata, di cumulare concessioni da parte di una stessa impresa su aree diverse di un porto per lo stesso tipo di traffico. Prima di addentrarci nello specifico del DDL è bene sottolineare come, se dovesse passare questo testo, al netto dei molti emendamenti fino a qui presentati, a perdere potere, tutele e diritti saranno, in entrambi i casi, i lavoratori ed i territori che ospitano gli scali marittimi italiani, mentre a trarne vantaggio saranno esclusivamente i grandi armatori, segno evidente questo di come l’attuale governo sia ancora una volta molto condizionato dalle lobbies dei grandi capitali

Provando ora ad entrare più nel dettaglio, leggiamo dalla relazione pubblicata sul sito del Senato: “Tutto ciò considerato, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ritiene necessario un intervento in via normativa al fine di giungere a una modalità di assegnazione delle concessioni portuali che limiti l’attuale eccessiva discrezionalità delle autorità competenti in merito alle modalità di rilascio/rinnovo delle concessioni e che garantisca i partecipanti sul rispetto dei principi dell'Unione Europea di trasparenza, pubblicità e non discriminazione”.

Per dirla in parole povere, l’AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato) per sottostare alle pressioni dell’Unione Europea, toglie alle Autorità di Sistema Portuale la discrezionalità nell’assegnazione delle banchine. Come dimostrato in più occasioni l'USB, in tutti i porti italiani, è la prima a criticare i difetti delle authority portuali che, troppo spesso, agiscono sotto dettatura e spesso a favore dei partiti di governo, delle compagnie armatoriali o di grandi player privati, ma resta il fatto che la loro stessa presenza nelle città portuali le rende istituzioni di prossimità al cospetto delle quali, a volte anche con modalità conflittuali, è possibile cercare un confronto al fine di correggere storture a tutela di lavoratori e lavoratrici.

Spogliare delle proprie prerogative i presidenti delle autorità portuali e trasferire tali poteri ad authority nazionali o addirittura ai ministeri comporterebbe una centralizzazione del potere e allontanerebbe i porti italiani dai territori e dalla cittadinanza, privandoli di fatto della possibilità di difendere e lottare per i propri diritti ed i propri interessi. Fa riflettere come, per l’ennesima volta, nonostante una pandemia ancora in corso ed una terribile guerra divampata proprio alle nostre porte, l’Unione Europea si faccia portatrice di valori astratti e che, in nome di una non meglio precisata trasparenza e del rispetto di freddi standard economico-finanziari, colpisce cinicamente gli interessi delle persone comuni. 

Evidentemente la sfiducia ed il risentimento dei cittadini dell’Unione, derivante da anni di austerità finanziaria e leggi sciocche che regolamentavano dimensioni di zucchine ed altre amenità del genere, non hanno ancora fatto capire ai burocrati di Bruxelles che se non cambiano decisamente passo la loro Unione rischia di andare in frantumi abbattuta dal risentimento delle classi più povere del continente.

L’altro punto a cui abbiamo accennato è spiegato nella relazione al Senato del governo con le seguenti parole:  “Ai fini della tutela della concorrenza si prevede, inoltre, che, in ciascun porto l'impresa concessionaria di un'area demaniale deve esercitare direttamente l'attività per la quale ha ottenuto la concessione e non può essere al tempo stesso concessionaria di altra area demaniale nello stesso porto, a meno che l'attività per la quale richiede una nuova concessione sia differente da quella di cui alle concessioni già esistenti nella stessa area demaniale, e non può svolgere attività portuali in spazi diversi da quelli che le sono stati assegnati in concessione. Tuttavia, tale divieto di cumulo non si applica nei porti di rilevanza economica internazionale e nazionale (individuati ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge n. 84 del 1994 che ha introdotto la classificazione dei porti di tutto il territorio nazionale), e in tale caso è vietato lo scambio di manodopera tra le diverse aree demaniali date in concessione alla stessa impresa o a soggetti comunque alla stessa riconducibili”.

Prevedere nel decreto concorrenza la possibilità che nei porti di interesse nazionale ed internazionale (praticamente tutti i maggiori scali italiani) una singola impresa possa accumulare più concessioni per lo stesso tipo di traffico sembra una vera e propria offesa all’intelligenza dei cittadini. In un mercato dove gli armatori più grandi, soprattutto dopo la crisi pandemica, tendono sempre di più ad inglobare gli attori più piccoli divenendo multinazionali potentissime, la possibilità di accumulo di concessioni è l’esatto contrario della concorrenza.

L’approvazione di tale norma porterà inevitabilmente pochi e grandissimi armatori ad ottenere numerose concessioni trasformando di fatto in feudi privati grandi porzioni di demanio pubblico. A questo seguiranno inevitabilmente delle conseguenze terribili per i territori che ospitano gli scali: come prima cosa verrà meno la diversificazione dei traffici, uno dei principi cardine per la “salute” di un porto; il conseguente oligopolio farà in modo che gli armatori, con i loro immensi capitali possano da una parte inquinare la democrazia sindacale dei porti, minacciando i lavoratori che lottano per difendere i propri diritti, di non poter più ottenere lavoro in larga parte delle mansioni effettuate nello scalo; analogamente alla democrazia sindacale, attraverso un aumento  sconsiderato del potere di lobbying, i grandi gruppi potranno esercitare sempre più pressioni sui consigli comunali e sulle altre istituzioni democratiche di prossimità.

Non è difficile  immaginare infatti come molti consiglieri comunali delle città portuali possano facilmente essere eletti grazie all’influenza di questi grandissimi player al fine di trasformare le giunte comunali alla stregua di mere esecutrici della volontà degli armatori; inoltre, in una logica in cui un armatore dovesse garantirsi una posizione dominante in uno specifico porto, la sua esigenza di mercato potrebbe paradossalmente essere quella di danneggiare le capacità di un altro scalo controllato da un suo competitor. In questo giochino tra grandi capitali che si fanno la guerra tra loro le uniche vittime sarebbero così i lavoratori e le lavoratrici che vedrebbero a rischio la propria stabilità lavorativa ed un continuo ridimensionamento al ribasso dei loro diritti in nome della produttività e del profitto.

Unica difesa prevista dal governo per la stabilità del lavoro e della pace sociale può essere rintracciata nella frase: “in tale caso è vietato lo scambio di manodopera tra le diverse aree demaniali date in concessione alla stessa impresa o a soggetti comunque alla stessa riconducibili”. E proprio in questo caso, come era facilmente prevedibile, alcune forze politiche legate ai grandi armatori, nella fattispecie Lega Nord, Fratelli D’Italia e Italia Viva, hanno presentato emendamenti che chiedono la cancellazione di questa parte di testo. Questo, se dovesse ancora servire, conferma due fatti: da una parte che gli armatori hanno oggi una fortissima influenza su larghe fette del parlamento che tenderanno sempre di più a fare i loro interessi a discapito dei lavoratori portuali; dall’altra che quando si comincia a giocare con l’equilibrio degli scali italiani si sa dove si comincia ma non dove si finisce.

Prima di modificare le leggi che regolano i porti italiani, le quali determinano equilibri già squilibrati nei confronti dei capitali, ma che comunque prevedono salvaguardie alla stabilità ed alla sicurezza del lavoro ottenuti con decenni di lotte dei camalli italiani, bisognerebbe dialogare con i lavoratori e le forze sociali dei territori. Non saremo certamente noi a difendere la legge 84/94, che tanto male ha fatto ai lavoratori, ma i cambiamenti che noi per primi chiediamo devono essere finalmente a salvaguardia di territori e lavoratori, unici e legittimi proprietari dei porti italiani e della loro storia.

 

Inoltre crediamo che la proposta contenuta nel DDL Concorrenza di porre fine al divieto di doppia concessione metta in risalto una tematica più grande, relativa a due diverse concezioni dello sviluppo portuale.

Da un lato quella che, semplificando, potremmo chiamare “liberista”, essenzialmente basata sulla concorrenza fra scali e al primato del privato, secondo la quale ciascun porto deve svilupparsi al massimo delle proprie capacità. Da qui l’esigenza di affidare tutte le concessioni che appaiono convenienti, fossero anche relative ad un unico soggetto imprenditoriale, senza eccessive preoccupazioni con riguardo alla creazione di condizioni oligopolistiche o di squilibrio tra diverse aree del paese.

Dall’altro, una concezione che con altrettanta semplificazione potremmo definire “pubblicista”, che invece fa capo a un’idea di programmazione nazionale e di contrasto alla privatizzazione degli scali, interessata a uno sviluppo armonico della portualità nel suo complesso e al rafforzamento di un ruolo pubblico che non si esaurisca in quello di esercizio dei poteri concessori. Da qui la necessità di opporsi al cumulo delle concessioni, che in ultima analisi condurrebbe ad un ulteriore aumento delle banchine in concessione e a un concentramento dei traffici di maggior valore solo in certi scali con conseguente declassamento di quelli meno sviluppati.

Crediamo che come USB sia importante abbracciare questa seconda tesi, che, come facilmente intuibile, si oppone a un arruolamento dei lavoratori alle cause localistiche, ne contrasta le divisioni, promuove la solidarietà di classe e in ultima analisi porta con sé anche maggiori possibilità di difendere il lavoro portuale.

Certamente le due tesi non vanno contrapposte in modo manicheo.

In primo luogo, perché la concessione ai privati di banchine portuali è in alcuni casi inevitabile e anzi necessario, specie a fronte di importanti investimenti o di particolari condizioni produttive, sebbene non ci sfugga la scarsa trasparenza degli affidamenti né la spinta a favorirne lo sviluppo per mere esigenze di bilancio delle AdSP. Senza contare, inoltre, che esistono diversi modi di arrivare a un affidamento e soprattutto di scrivere un atto concessorio, più o meno garantisti dell’interesse pubblico.

In secondo luogo, perché ovviamente i porti non sono tutti uguali. Esistono porti che, anche per motivi geografici, hanno una evidente vocazione interazionale come Genova, Livorno, Venezia e Trieste – laddove in alcuni casi si arriva a proporre un ruolo imprenditoriale per le AdSP da trasformare in spa – porti a carattere regionale e porti legati solo ad alcuni traffici: una pluralità di condizioni che oggettivamente non possono essere affrontate tutte allo stesso modo.

Tuttavia, quello che per noi dovrebbe essere chiaro è che la portualità italiana non può essere orientata solo alle esigenze del mercato.

In tal senso, appaiono evidenti i danni prodotti dalla spinta liberista degli ultimi trenta anni, laddove, nella volontà di escludere ogni ipotesi di pianificazione del sistema dei trasporti, si sono realizzate situazioni opposte e confuse, con programmi di sviluppo mastodontici o infrastrutturazioni che non hanno garantito lo sviluppo ipotizzato, spesso in mancanza di una funzionale connessione alle principali reti viarie, ferroviarie e logistiche del paese.

È del resto ben nota la perdurante assenza di una reale ed efficace politica nazionale dei trasporti, plasticamente evidenziata dal mancato aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL) ormai ferma al 2001, così come è noto il fatto che in Italia ben il 42% dei terminal è in mano ad un unico operatore.

In questo contesto, non crediamo che la fine del divieto di cumulo delle concessioni e il restringimento della concorrenza sia ciò che serve oggi alla portualità italiana, che deve invece essere ricondotta a uno sviluppo organico, quanto più pubblico ed estraneo a fenomeni di concentrazione in capo a pochi operatori, da promuovere nell’ambito di una programmazione nazionale dei trasporti volta all’integrazione verticale e all’equilibrio territoriale.

In conclusione, di fronte a questi spregiudicati tentativi di trasformare le nostre banchine in terra di conquista per multinazionali e giganteschi interessi privati, c’è bisogno della massima coesione tra tutte le realtà portuali italiane. Il rischio che questo DDL sia solo il primo di una lunga serie di attacchi alla nostra categoria e, più in generale a tutti i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese è, purtroppo, molto concreto. In questi anni abbiamo tuttavia dimostrato che la nostra voce ha un peso rilevante anche nelle trattative più difficili, abbiamo dimostrato che la lotta paga e che i portuali non sono disposti ad accettare passivamente provvedimenti e leggi calate dall'alto e scritte da chi non ha mai lavorato un secondo della sua vita sul ciglio di una banchina.

Non permettiamo quindi che un DDL divori i nostri diritti. Prepariamoci alla lotta, coerenti, determinati, uniti!

USB Civitavecchia