Cerchiamo di spiegare che cosa è l’elemento perequativo, una delle tante anomalie (o bufale) di questo rinnovo contrattuale.
I cosiddetti incrementi contrattuali, spalmati in percentuali sui livelli economici, hanno prodotto come risultato l’aumento della forbice retributiva tra i livelli più bassi e quelli apicali.
Per ovviare, all’aumento tabellare hanno pensato bene di aggiungere l’elemento perequativo (art.37 Ipotesi CCNL) dalla posizione economica B1 a D2, che varia da € 7,00 ad € 28,00.
Si tratta di un provvedimento una tantum, erogabile solo per il periodo marzo-dicembre 2018, dopo di che non sarà più corrisposto. QUINDI L’INCREMENTO REALE DI QUESTO RINNOVO CONTRATTUALE non è la somma tra l’incremento retributivo e l’elemento perequativo, come alcuni sindacati firmatari stanno cercando di far intendere ai lavoratori.
L’elemento perequativo non è utile ai fini previdenziali, dell’indennità di anzianità, del trattamento di fine rapporto, dell’indennità sostitutiva del preavviso, nonché dell’indennità in caso di decesso. E’ una sorta di “fuori busta”, una regalia.
Poiché nella Finanziaria non sono state stanziate le risorse economiche adeguate a finanziare questa sorta di elemosina una tantum, i fondi necessari sono stati “recuperati” facendo partire l’incremento contrattuale a regime, spettante a tutti i lavoratori, non dal 1° gennaio 2018 ma dal 1° marzo 2018.
Insomma il Governo si è fatto bello agli occhi dei lavoratori utilizzando i “risparmi” fatti sugli stessi fondi a loro destinati (il ministro Madia, difatti, si era impegnata a prestare attenzione ai livelli economici più in sofferenza). Si era appeso la medaglia solo per il tempo strettamente necessario a svolgere le elezioni politiche e quelle delle RSU. Governo e sindacati complici si assistono reciprocamente, perché è assai complicato per i sindacati gestire una propaganda elettorale dopo aver svenduto i diritti dei lavoratori con la firma di questo contratto. Ancora più difficile, dopo aver pesantemente ipotecato la contrattazione nazionale con l’accordo sull’ impegno degli 85 euro lordi e medi sottoscritto a tavolino tra Governo e cgil-cisl-uil-ugl a novembre del 2016.
L’aumento medio riconosciuto è inferiore al 40% dell’inflazione registrata negli anni di blocco della contrattazione (2010-2017). Infatti in questi anni l’IPCA, l’indice dei prezzi al consumo che è la misura di riferimento per calcolare gli incrementi contrattuali (applicata nel rinnovo dei contratti del privato), si è rivalutato del 10%. E’ sufficiente adeguare le retribuzioni del 10% per verificare quanto sarebbe dovuto essere l’aumento contrattuale per aggiornare le retribuzioni alla sola inflazione.
Basta anche solo confrontare i cosiddetti incrementi retributivi di questo rinnovo con quelli del precedente CCNL per rendersi conto dell’inganno che si è consumato e che da il senso dell’impoverimento a cui hanno portato i dipendenti pubblici. Non possiamo non concludere che la proposta della USB, di incrementare le retribuzioni tabellari di € 300,00 mensili, non era affatto campata in aria. Era un buon punto di partenza per una vera contrattazione. Perché ai livelli retributivi più alti si sarebbe potuto restituire bene o male l’inflazione, mentre ai livelli più bassi avrebbe riconosciuto, oltre all’inflazione, un congruo aumento per allineare le retribuzioni con quelle più elevate e dare più valore agli stipendi di chi ha più sofferto il blocco della contrattazione.
C’è da ricordare che solo la USB in questi anni ha ripetutamente scioperato chiedendo non solo il rinnovo del contratto, ma un contratto che restituisse potere d’acquisto alle retribuzioni e risolvesse i problemi dei lavoratori.