Il contesto
Il Piano Nazionale Formazione (d'ora in poi PNF) si presenta fin dall’attacco come uno strumento per “lo sviluppo del capitale culturale, sociale e umano”, ‘imposto’ da “le sfide da affrontare a livello europeo e globale”.[1] Ovvero si presenta fin dall’introduzione come un documento figlio delle politiche europee sulla formazione. Politiche che si posizionano chiaramente nel paradigma della Società della Conoscenza, con i suoi corollari di Capitale Culturale, Capitale Umano, Formazione continua, Innovazione. La Società della Conoscenza, presentataci sin dall’apparire della Strategia di Lisbona (marzo 2000) come la sola via di crescita e sviluppo dell’Europa; quella che ci avrebbe permesso di riposizionarci nel mercato mondiale, ritagliandoci il ruolo di continente che produce servizi e prodotti che richiedono un livello elevato di “Know How”, per il quale è necessario formare un Capitale Umano ad alto livello di specializzazione; quel nuovo modello sociale che avrebbe dovuto sostituire la vecchia Europa del Welfare ormai non più adatta alle “sfide della globalizzazione”; quella società che avrebbe ammodernato il mercato del lavoro e liberato tempo per i cittadini, si è concretizzata, all’atto dei fatti, in un importante impoverimento della popolazione, nella perdita di posti di lavoro, nella diminuzione dei salari, nella perdita dei diritti economici e sociali conquistati nei decenni postbellici.
In questo contesto, perché l’Europa resti tra le economie più potenti del mondo, ai sistemi di istruzione e formazione le classi dirigenti hanno assegnato un compito improbo e divenuto ancora più tale dopo lo shock economico del 2008 e nel prolungarsi di una crisi da cui l’Unione stenta a risollevarsi. La riforma dei sistemi di istruzione e formazione dovrebbe, nelle intenzioni delle classi dirigenti, intercettare le esigenze dell’impresa, favorendo lo sviluppo nella popolazione scolastica di competenze adatte al mercato del lavoro, oltreché formare una forza lavoro fortemente predisposta alla flessibilità professionale, abitativa e mentale, caratteristiche queste, considerate essenziali nello sviluppo delle economie liberiste. La scuola è chiamata a formare una futura classe lavoratrice di livello culturale medio-basso composta per lo più da esecutori. In questo senso tanta importanza hanno assunto le competenze trasversali, che la fanno da padrone, vedremo, anche nel PNF e tanta ne hanno persa i contenuti culturali. In questo senso va tutta la didattica per competenze, lo svuotamento dei contenuti, la riduzione del tempo scuola, il tentativo reiterato di ridurre a 4 anni la durata delle scuole secondarie superiori, la riforma del 3+2 all’Università, l’introduzione della logica dei crediti. Non servono persone che pensino e, sia mai, possano mettere in discussione la visione univoca del mondo di cui veniamo nutriti fin dagli anni ‘80, quando il neoliberismo ha ripreso vigore e si è imposto a livello internazionale; servono, invece e ancora una volta, persone “istruite quanto basta”, ovvero utili alle esigenze del mercato, ma senza gli strumenti necessari per interrogarsi su di esso ed eventualmente metterlo in discussione. Il tentativo di utilizzare il sistema di istruzione e formazione nel processo di ristrutturazione europea, si concretizza nei fatti in una commistione continua tra privato e pubblico, tra impresa e sistema formativo e nasconde dietro l’ideale della formazione pratica e laboratoriale il lavoro gratuito – perché questo e non altro è l’alternanza scuola-lavoro. Oltre a inserire gli studenti in una logica di sfruttamento e a sottrarre reddito ai lavoratori, esso ha sostituito la formazione pratica e laboratoriale nelle scuole, ovvero in quel un contesto di vita protetto e formativo, dove è corretto che essa si svolga.
Uno strumento di Crescita?
Perché il processo sopra descritto abbia una reale efficacia, bisogna però che i docenti siano formati a questo modello di scuola e lo condividano. In questo senso il PNF arriva a colmare un vuoto: esso dovrebbe indirizzare definitivamente la formazione del personale docente verso la formazione per competenze, la formazione di tipo tecnico-didattico, quella relativa alle tecnologie dell’informazione, alle lingue straniere, mentre sempre meno spazio ha la formazione disciplinare e sui contenuti, fatta passare per obsoleta e inadatta alla Società della Conoscenza. La legge 107/2015, come ricordato nello stesso PNF,[2] propone un nuovo quadro di riferimento, che vorrebbe superare quello riconducibile agli artt. 29, 63 e 64 del CCNL, che la definiva come diritto/dovere senza ulteriori specifiche qualitative e quantitative. La formazione (comma 124) viene chiaramente definita come “obbligatoria, permanente e strutturale”. Inoltre si afferma la sua obbligatorietà in una logica strategica e funzionale al miglioramento e in tal senso si preannuncia la definizione e il finanziamento di un Piano nazionale di formazione triennale e l’inserimento, nel piano triennale dell’offerta formativa di ogni scuola, della ricognizione dei bisogni formativi e delle conseguenti azioni di formazione da realizzare, nonché l’assegnazione ai docenti di una carta elettronica personale per la formazione e i consumi culturali; infine, si riconosce la partecipazione alla ricerca e alla documentazione di buone pratiche, come criteri per valorizzare e incentivare la professionalità docente.
Il PNF risponde dunque a quanto previsto dalla L. 107. Esso vuole delineare un modello di sistema per lo sviluppo professionale, che a detta del legislatore dovrebbe promuovere e sostenere la collaborazione a tutti livelli, con sistemi di tutoraggio nelle scuole, tra istituti (in rete), tra istituti e società, a livello nazionale e internazionale, nonché assicurare la qualità dei percorsi formativi, al fine di “massimizzare il proprio impatto sul capitale professionale e sociale di tutta la scuola”,[3] attraverso buoni contenuti e buoni formatori, definire con chiarezza le priorità della formazione mettendo insieme gli obiettivi di crescita personale del singolo docente, quelli di miglioramento della scuola e la strategia di sviluppo dell’intero paese, oltre che promuovere l’innovazione continua, altro corollario necessario alla società della conoscenza. Tutto questo deve avvenire in coerenza con la formazione inziale, in collegamento con la formazione dei dirigenti e del resto del personale scolastico. Il tutto con obiettivi molto precisi: rafforzare e valorizzare la professione docente, dando riconoscimento a chi si impegna non solo nella propria formazione, ma anche in favore della crescita dei propri colleghi; migliorare le prospettive di carriera dei docenti, legittimando dal punto di vista strutturale le attività condotte; documentare, attraverso dispositivi come il portfolio professionale e il piano di sviluppo professionale (previsti dallo stesso PNF nel capitolo 3), il progressivo affinamento di competenze, attitudini, expertise dei docenti; programmare al meglio la formazione negli anni successivi.
Già qui crediamo vi siano elementi inquietanti e in grado di trasformare per sempre la scuola come l’abbiamo sempre conosciuta. In primo luogo viene propagandata un’idea di collaborazione che sembra essere più sulla carta che nei fatti. Infatti i processi di tutoraggio, uniti al continuo richiamo alla carriera del docente e alla valorizzazione di “chi fa”, fanno in realtà pensare ad uno strumento per sancire quelle differenze tra docenti di serie A e di serie B, che l’introduzione del bonus docenti, della chiamata diretta e del 10% di personale utilizzabile dal dirigente come suoi collaboratori, già stanno delineando. Ci sono buoni motivi per credere che la formazione verrà utilizzata per individuare i docenti “bravi” e quelli che tali non sono, anche sulla base delle iniziative di formazione cui decideranno di partecipare, perché come vedremo, nella quarta parte del PNF si chiarisce esplicitamente che la formazione è fortemente indirizzata e non più libera, come invece previsto anche solo dal dettato costituzionale.
Inoltre in questi passaggi si dice con chiarezza che i docenti, adeguatamente formati secondo le esigenze dell’impresa e del mercato, debbano e possano risollevare le sorti di un paese il cui sistema di benessere sociale è stato sacrificato alle leggi del profitto e la cui classe dirigente pare non avere alcuna prospettiva sociopolititca, se non quella dettata dalle politiche europee che tanto danno hanno fatto e continuano a fare. Poco importa che i docenti e la scuola tutta siano indeboliti da decenni di tagli, di blocco degli stipendi, di riduzione del potere d’acquisto e da una campagna mediatica di svalutazione e denigrazione davvero imponente. Per questa operazione, il governo che tanti fondi ha sottratto all’istruzione negli anni, trova i fondi necessari ad alimentare il sistema formativo delle reti di scuole e anche le scelte dei singoli docenti. Abbiamo infatti la Carta del Docente, già operativa dall’anno scorso, che anche quest’anno è possibile utilizzare per formarsi presso gli enti accreditati al Miur, con un rischio corruzione più che palese. Inoltre, per la formazione docenti quest’anno sono stati stanziati circa 200 mila Euro per ambito territoriale, confermando gli impegni presi nella 107 e nel PNF, che parlano rispettivamente di 40 milioni annui e di 270 milioni per il triennio 2016/17, cui vanno aggiunti 1.4 miliardi destinati alla Carta Docente. Peccato che i formatori il più delle volte non siano stati ancora individuati, in barba alle promesse di serietà e che le esigenze formative, come vedremo subito, lungi dall’essere espressione libera del corpo docente, siano fortemente indirizzate dall’alto e rilevate con metodologie quantomeno discutibili e che le scuole siano molto indietro con l’organizzazione dei corsi.
Come stanno le cose in Europa?
Il leitmotiv di tutte le recenti e devastanti riforme in Italia è che lo vuole l’Europa, che è necessario per stare al passo con gli altri stati europei. Anche nel caso del PNF vengono citati continuamente documenti, nonché indagini europee e internazionali che mostrerebbero un’Italia arretrata e non al passo coi tempi. Ma come funzionano realmente le cose in Europa? La strategia per migliorare i sistemi educativi punta indubbiamente su una formazione continua, strutturale e sostenuta finanziariamente. Lo sviluppo professionale lungo tutto l’arco della carriera comprende opportunità di apprendimento formali, informali e non formali. L’obbligatorietà, però, vige soltanto in una parte degli stati membri, e l’impegno non supera i 3-5 giorni all’anno. In altra buona parte degli stati, la formazione è opzionale. Generalmente è incentivata, perché collegata alla possibilità di ottenere una promozione. Dunque, sviluppo continuo e progressione di carriera sono indissolubilmente legati. In Italia no, questo è il maggiore punto debole a cui il PNF cerca di mettere riparo, con la creazione, lo vedremo, del portfolio, che però può essere utilizzato in senso clientelare. E la formazione pregressa? Un docente che ha 30 anni di servizo alle spalle certamente avrà partecipato ad attività di formazione. Non è una tabula rasa sulla quale scrivere “unità formative” come se si partisse da zero. Come riporta il Miur, hanno svolto attività di formazione il 75-76% dei docenti italiani. La percentuale è inferiore rispetto ad altri 10 paesi Ocse in cui è stata condotta l’indagine Talis 2013, ma riguarda pur sempre i 3/4 del corpo docente. Bisognerebbe tenerne conto. Va riconosciuto l’apprendimento formale, informale e non formale, con modalità di partecipazione aperte e flessibili, come è previsto in tutti gli ordini professionali. Su questo aspetto il Miur rimane troppo vago e generico.
Il portfolio del docente
Nella parte relativa al senso della formazione (parte 2) si esplicita con chiarezza che l’Italia è debole dal punto di vista della formazione del suo Capitale Umano. Essa si collocherebbe solo al 24simo posto su 28 paesi, perché gli italiani sarebbero poco adeguati ad una società digitale, poco competenti nelle lingue e quindi poco adatti ad una società globalizzata.[4] In questo senso appare allora essenziale predisporre un sistema di formazione professionale continua che colmi quel gap e possa essere adeguatamente certificato sul piano internazionale. Per questo viene inserito nel PNF il Portfolio professionale del docente, che dovrebbe contenere il suo curriculum professionale e formativo, oltreché la documentazione on line della sua attività didattica e un piano di sviluppo professionale. Questo dovrebbe essere lo strumento per la crescita del docente e la sua progressione di carriera. Ma come può avvenire questo oggi, anche alla luce delle novità prodotte dalla L. 107? È molto probabile che il portfolio digitale prenda il posto di ciò che prima erano le graduatorie con i relativi punteggi di servizio e titoli. Esso potrà essere utile ed utilizzabile per la chiamata diretta, la definizione dei ruoli di collaborazione con la dirigenza, l’assegnazione del bonus docenti, cioè per oliare un meccanismo farraginoso e clientelare che sta prendendo piede nelle nostre scuole. Diventa poi difficile non pensare che possa essere utilizzato come schedatura del personale: chi si è formato? Come? Su cosa? Con chi? Con il potere enorme consegnato nelle mani dei Dirigenti Scolastici la situazione appare preoccupante.
Come sono state definite le priorità formative per il prossimo triennio
Il PNF vorrebbe mettere d’accordo le esigenze formative dei singoli docenti, dei singoli istituti, delle reti di scuole, del Ministero. Nei fatti, il PNF nei suoi contenuti e nella sua struttura è calato dall’alto. Esso stesso cita infatti come sue premesse tre ricerche: l’indagine TALIS2013, condotta dall’OCSE, ovvero da uno degli organismi che più ha spinto e sta spingendo verso quel modello di scuola al servizio del Capitale e dell’impresa di cui abbiamo cercato di dare una seppur sommaria descrizione all’inizio del documento, la raccolta dei bisogni formativi dei docenti neoassunti dell’a.s. 2014/2015, tratti dai portfolio compilati per l’anno di prova e Digital Economy & Society Scoreboard della Commissione Europea che ci vede al 25mo posto su 28 paesi, con un risultato particolarmente debole sul pilastro “Capitale Umano”. L’indagine TALIS2013 descrive un corpo docenti italiano sottoformato rispetto agli altri paesi coinvolti e il Digital Economy & Society Scoreboard dimostra che i docenti italiani sono carenti in quanto a lingue straniere e cultura digitale. Da qui il MIUR deduce che i docenti italiani necessitano di formazione, ma nessuna reale indagine di approfondimento è stata condotta sul perché i docenti italiani si formino poco: non c’entreranno forse lo scarso riconoscimento sociale della professione, l’enorme lavoro sommerso che essi svolgono fuori dall’orario di servizio, gli stipendi inadeguati che percepiscono? Per quel che riguarda il portfolio dei neoassunti: esso era fortemente indirizzato e le aree di sviluppo indicabili erano definite secondo l’ideologia delle competenze e dell’innovazione che abbiamo descritto. Possiamo quindi dire che le basi teoriche che il PNF stesso si dà, siano carenti in quanto ad approfondimento e condivisione con chi la scuola la fa e la vive.
I contenuti formativi del PNF e la definizione dei corsi
Il modo in cui ogni scuola dovrebbe giungere alla definizione dei sistema di selezione dei contenuti della formazione all’interno delle singole scuola sembra estremamente farraginoso e complesso. Ogni docente dovrebbe armonizzare le proprie esigenze con gli obiettivi del Piano di Miglioramento elaborato in seguito al RAV, che dovrebbe accordarsi con le esigenze delle altre scuole dell’ambito territoriale e con le priorità espresse dal MIUR. Appare dunque molto più probabile che alla fine gli istituti e i docenti si adeguino a quanto previsto dalle indicazioni nazionali, perdendo ogni capacità di definire e programmare la propria formazione in servizio, che invece lo stesso PNF dichiara di voler loro assegnare[5] e che spetterebbe alla libertà di ogni docente, fin dal dettato costituzionale.
Ma quali sono le priorità nazionali del triennio 2016/2019? Esse si suddividono in tre ambiti: competenze di sistema, competenze per il 21mo secolo, competenze per una scuola inclusiva. Iniziamo con il dire che l’acquisizione della “competenza” come denominatore comune e obiettivo universale della formazione è ormai acquisita. Questo senza che vi sia mai stata una riflessione condivisa sul costrutto di competenza tra i docenti della scuola italiana. Questo concetto, come altri prima, è stato imposto come se fosse un concetto neutro e senza conseguenze. Esso è invece un costrutto complesso, il dibattito sul quale inizia negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’70 ed è un dibattito tutto interno al mondo dell’impresa e della selezione/formazione delle risorse umane. L’idea è quella di superare la dicotomia tra conoscenza e azione e trovare un modo per misurare quanto un soggetto sappia agire in un determinato contesto, sulla base del suo patrimonio di conoscenze e abilità. Senza entrare in un dibattito che è amplissimo e complesso, bastano queste poche righe per comprendere che il concetto di competenza serve a definire quanto una persona sia adatta ad un certo contesto lavorativo e quanto sia utilizzabile da un’impresa in un determinato contesto produttivo. I docenti verranno formati ad acquisire competenze che permettano ai loro allievi di acquisire competenze teoricamente spendibili nel mercato del lavoro, tutto il sistema è al servizio del mercato, della produzione. Dove finisce in questo quadro la formazione dell’essere umano? Della persona? Del cittadino?
Senza addentrarci nel dettaglio delle proposte, che sono declinate con precisione nella sezione 4 del PNF, ci limitiamo ad osservare che l’intero progetto mira a formare una classe docente pronta a “produrre” giovani flessibili, predisposti ad accettare le regole di un mondo globalizzato, capaci di fare ma non altrettanto di pensare, visto lo scarso peso dei contenuti culturali, nell’intero piano. [6] Ci limitiamo inoltre a sottolineare quanto sia demagogico formare i docenti a farsi carico di situazioni sociali sempre più complesse, come quelle che si esprimono nel disagio scolastico, a fronte dei tagli subiti da scuola e servizi sociali, come se la formazione potesse mettere in grado i docenti italiani di affrontare aule sovraffollate, caratterizzate dalla multiculturalità, dalla (giusta) presenza dei disabili e dei DSA, presenza non adeguatamente supportata da un numero sufficiente di risorse docenti, sia di disciplina che di sostegno. Ancora una volta la scuola dovrebbe sopperire senza strutture e risorse alle storture del sistema socioeconomico in cui viviamo. I contenuti vanno poi articolati in specifiche Unità Formative, il cui monte ore non è quantificato, anche se le Reti di ambito stanno orientandosi verso le 25 ore a UF che possono essere realizzate in collaborazione con enti accreditati.
Cosa fare?
Il PNF è previsto dalla Legge 107/2015 e come tale fa parte di un progetto di riforma della scuola cui difficilmente i governi rinunceranno. Abbiamo chiaramente spiegato come tale processo di riforma faccia parte di un progetto che è diretto dalle classi dirigenti europee e dei paesi industrializzati in generale che mira a formare in modo massificato alla cultura di impresa, a ruoli esecutivi e non certo alla riflessione, allo spirito critico e alla formazione della personalità, aspetti che appaiono invece irrinunciabili a chiunque intenda l’insegnamento e l’apprendimento come processi di socializzazione e acculturazione più ampi e profondi di quelli relativi all’inserimento nel mercato e nel processo di globalizzazione economica che ci viene imposto.
Cosa possiamo dunque fare per depotenziare gli effetti del PNF e garantirci comunque la libertà nella formazione che ci spetta sia per dettato costituzionale che per le caratteristiche essenziali della nostra professione? All’interno dei Collegi Docenti appare necessario
1. Fare in modo che il Piano di Miglioramento inserito all’interno del PTOF contenga un ampio spettro di obiettivi, alcuni dei quali fortemente connessi alla dimensione delle conoscenze e dei contenuti culturali;
2. Non definire alcun monte ore annuale di formazione obbligatoria per i docenti; il PNF non prevede monte ore, quindi non ha senso legarsi ad obblighi che non ci sono;
3. Di fronte alla proposta dei cataloghi formativi degli ambiti territoriali, mantenere una posizione neutrale, consentendo, se lo si ritiene alla loro proposta, ma non vincolandosi ad essa;[7]
4. Pretendere e scegliere formazione gratuita e in orario di servizio. A tal proposito vale la pena ricordare che abbiamo diritto a 5 gg di permessi per attività di aggiornamento, che non possono essere negati dal DS, se non sulla base di specifiche contenute nella Contrattazione Integrativa di Istituto. Occorre inoltre sottolineare che la formazione in servizio costituisce a livello contrattuale un diritto/dovere (vedi artt. 29, 63 e 64) e, pertanto, è da intendersi sempre come formazione in orario di servizio esattamente come per tutti gli altri lavoratori della Pubblica amministrazione o, diversamente, va retribuita. Se la legge 107/2015 ha stabilito che la formazione in servizio del personale della scuola è diventata a tutti gli effetti un dovere aggiuntivo, allora occorre che tale nuovo obbligo, in quanto attività funzionale all’insegnamento venga contrattato come tutti gli altri obblighi di ogni rapporto di lavoro;
5. Mantenere la possibilità di autorganizzare a livello di scuola o di gruppi di docenti, iniziative autonome di formazione. Questa possibilità è garantita anche dal PNF, anche se viene specificato, che “l’assegnazione di fondi anche a singole scuole” è possibile “per rispondere a esigenze formative previste nel piano triennale” solo “se non realizzabili in altro modo”.[8]
6. Prendersi carico in modo consapevole della propria formazione.
Cosa fare in quanto USB Scuola
USB Scuola ritiene essenziale reinvestire nella formazione, per mezzo della collaborazione con il nostro Centro Studi, il CESTES, il cui accreditamento presso il MIUR è stato confermato. Cestes (Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali) e USB Scuola intendono fare della formazione docenti un terreno di crescita culturale e politica, individuale e collettiva. Siamo infatti convinti che la ripresa di una funzione sociale per gli insegnanti passi, oltre che dalla loro organizzazione all'interno di un soggetto sindacale forte e determinato, dall'acquisizione di strumenti di interpretazione della realtà in grado di leggere le trasformazioni del presente e fornire un orizzonte di senso alle nuove generazioni. Il tentativo di standardizzare i modelli educativi e ridurre l'insegnamento ad addestramento alle competenze non può essere accettato passivamente. Serve un’altra idea di Scuola. In questo senso il nostro lavoro negli anni a venire sarà quello di proporre una formazione il più possibile di qualità, formalmente inserita negli ambiti previsti dal PNF, ma che possa portare una visione critica delle tematiche in oggetto, proponendo un ribaltamento delle tematiche e mettendo al centro le capacità analitiche e critiche dei docenti coinvolti.
[1]PNF, p. 4
[2]PNF, p. 5.
[3]PNF, p. 8.
[4]PNF, pp.16
[5]Cfr p. 16 e ss del PNF.
[6] I saperi disciplinari sono poco citati e sempre in relazione alla didattica per competenze.
[7] Di seguito la proposta di una delibera che può essere applicata da un qualsiasi collegio docenti: “Alla luce delle modifiche in corso all'obbligo formativo per i docenti il collegio docenti, il CD del Liceo …, delibera di aderire all'offerta formativa proposta dall'ambito …, ma di di non conferire a tale offerta carattere di obbligatorietà ed esclusività e nelle more della definizione degli obblighi formativi del corpo docente, che possono essere attualmente modificati solo dal nuovo CCNL, lascia la possibilità ai suoi docenti di formarsi in un altro modo, purché si tratti degli ambiti formativi previsti dal PTOF o di quelli di didattica trasversale e disciplinare.”
[8] PNF, p. 60.