Dopo il vaglio da parte della Corte dei Conti, il 23 gennaio 2009 è avvenuta, all'ARAN, la stipula definitiva del contratto per il comparto ministeri relativo al biennio economico 2008/2009, siglato da Cisl, Uil e Confas-Unsa.
Il giorno prima, invece, è stato firmato da Cisl, Uil e Ugl, nonché dai padroni di Confindustria e da tutte le altre associazioni imprenditoriali, l’accordo che impone un nuovo modello contrattuale, strumento necessario per mettere in atto il progetto reazionario e autoritario di attacco ai diritti dei lavoratori.
Con la firma di questo accordo quadro, quindi, i sindacati firmatari hanno certificato il loro ruolo di agenti del mercato e dell’impresa oltre che di quello di amministratori delegati del governo.
Infatti, mentre sui lavoratori si scaricano in modo sempre più pesante gli effetti della crisi, governo, padroni e sindacati collaborazionisti si accordano per ulteriori arretramenti.
Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro continua ad essere, in questo modo, strumento di programmazione della riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori, con il superamento, di fatto, della titolarità negoziale delle categorie.
Tutto, viene totalmente subordinato alle esigenze delle imprese, annullando l’autonomia del sindacato, fino ad arrivare a disegnare un'architettura di controllo dei comportamenti dei lavoratori.
Si limita il diritto di sciopero, in particolare per le aziende dei servizi pubblici locali e, relativamente al secondo livello di contrattazione, si determina l’insieme dei sindacati rappresentativi della maggioranza dei lavoratori che possono dichiarare sciopero oltre ad imporre, obbligatoriamente, il ricorso all’arbitrato.
Lo stesso richiamo a scrivere regole comuni per la rappresentanza entro tre mesi assume, in questo quadro, il sapore di ulteriori strette antidemocratiche per escludere i lavoratori e il sindacato di base dalle decisioni.
Il Ccnl diventa mezzo per definire i confini della contrattazione aziendale, affermando il principio della derogabilità in sedi aziendali o territoriali dei diritti e delle condizioni minime stabilite nei contratti.
Derogabilità che diventa assoluta, già a livello nazionale, per tutti i lavoratori del pubblico impiego.
Gli aumenti retributivi possono essere soltanto variabili, legati alla redditività e alla produttività di ogni singola impresa e si rilancia, poi, la politica degli affari comuni tra imprese e sindacati collaborazionisti con il dilagare degli enti bilaterali.
Insomma, durante le trattative non si sciopera, le condizioni, i modi e i tempi dei rinnovi contrattuali saranno decisi in tavoli bilaterali tra le parti e i margini stessi delle trattative saranno definiti, sia per il lavoro pubblico che per quello privato, secondo parametri legati alla produttività, redditività, efficienza, qualità e andamento economico delle imprese e vincoli finanziari di bilancio per il lavoro pubblico.
Una camicia di forza entro cui il valore economico e normativo dei contratti e la sequenza contrattuale saranno stabiliti, ex ante, dentro parametri economici che sono esclusivamente dentro il controllo delle imprese e dell'amministrazione pubblica.
La valenza contrattuale non sarà più biennale ma triennale e la rivalutazione economica determinata non più entro l'inflazione programmata come con l'accordo del 1993, ma bensì entro un nuovo indicatore dei prezzi al consumo sulla base di un indice (IPCA) che armonizzerà i prezzi non più a quelli italiani ma a quelli europei depurandoli dalla dinamica dei beni dei prezzi energetici importati (!).
Una formula astrusa che, teoricamente, non sarà percepita dai lavoratori pubblici e privati (quella del 1993 ha portato ad una decurtazione in termini salariali che è sotto gli occhi di tutti) ma sarà percepita, immediatamente e praticamente, dalla gran massa dei lavoratori nei prossimi rinnovi contrattuali con ulteriori tagli alle buste paga.
Questo perché, indebolendo e impoverendo la contrattazione nazionale, il recupero sulla parte di contratto di secondo livello, quello aziendale o di ufficio, sarà praticamente impossibile per i milioni di lavoratori delle piccole imprese che già oggi ne sono esclusi e dai milioni di lavoratori con un contratto precario che la contrattazione integrativa non sanno neanche cosa sia.
Non si può non vedere che questa intesa incide nella carne viva delle relazioni industriali e della vita dei lavoratori, trasforma il carattere stesso del sindacato, ne compromette l'autonomia contrattuale, rafforza una idea di sindacato collaborazionista/consociativo/corporativo, sostituisce e subordina la contrattazione con una rete abnorme di commissioni bilaterali che, oltre al salario, rafforzano la contrattazione del funzionamento dei servizi integrativi delle pensioni e della formazione dei lavoratori.
Ma è esattamente questo il modello di sindacato, aconflittuale, collaborativo, sterilizzato dalla sua identità storica, ad inscriversi perfettamente nella cosiddetta cultura "riformista" sia dei governi filoimprenditoriali di centrosinistra che di quelli di centrodestra.
Risulta del tutto evidente, infine, che le posizioni assunte dai sindacati confederali in questa fase, non sono altro che “un teatrino” nel quale ognuno recita il proprio ruolo ben definito: i firmatari dell'accordo, vere cinghie di trasmissione del padronato mentre, chi non lo ha siglato, riscopre “l’anima rivoluzionaria”, rispolvera dall'armadio la solita giacchetta da indossare con i governi di centrodestra, e si propone come “maestro unico” dell’opposizione sociale.
Ma, per i lavoratori, sono ancora fresche le ferite della pace sociale, della supina concertazione e della condivisione alle politiche economiche che i sindacati confederali hanno praticato durante la devastazione del governo Prodi (memorandum pubblico impiego del 18 gennaio 2007, scippo del TFR, massacro della previdenza pubblica con l'accordo del 20 luglio 2007, protocollo del 23 luglio 2007 sul mercato del lavoro e sulla competitività, legge 30 e il pacchetto Treu).
La RdB/CUB ha contrastato la concertazione che, dal 1993, ha permesso che aumentassero i profitti e calassero verticalmente i salari e il loro potere d’acquisto.
Da oggi, sarà necessario impegnarsi ancor più per respingere questo accordo di riforma del modello contrattuale, fortemente voluto dai padroni di Confindustria, dando continuità alla mobilitazione e alla lotta che ha visto il sindacalismo di base protagonista nei mesi scorsi.
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