Che ci sia un rapporto diretto tra tasso di disoccupazione e andamento dei salari lo sa anche il meno brillante studente di economia, ma i nostri ‘maestri del pensiero’ se ne meravigliano ogni qualvolta l’ISTAT o qualsiasi altro istituto di ricerca lo evidenzia.
Sabato si commentavano i dati sull’aumento della disoccupazione prodottasi nel corso del 2012, l’anno dei professori al governo, l’anno dell’austerità, dell’aumento spropositato della CIG, dell’ennesimo blocco dei contratti pubblici e dell’adeguamento delle pensioni all’aumento del costo della vita, della riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, del taglio degli investimenti pubblici, della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro.
In pratica un anno di pesante austerità, che ha portato al crollo dei consumi e degli investimenti.
Come meravigliarsi allora se a gennaio 2013 l’ISTAT certifica un tasso di disoccupazione pari all’11,7% e tra i giovani del 38,7%, che come sappiamo non corrispondono a dati reali, poiché le rilevazioni vengono fatte tra chi cerca attivamente lavoro, senza considerare chi, scoraggiato, ha smesso di cercarlo.
I precari ammontano a quasi 3 milioni (la riforma Fornero ha aggravato la situazione) il volume della spesa della famiglie ha registrato un 4,3 % in meno, ma questo non significa affatto che siano diventate più risparmiose, semplicemente si sono ridotti i redditi e i salari, la cui crescita nel nostro paese risulta essere notevolmente più bassa rispetto alla media europea.
Lunedì i giornali ci illuminano sull’andamento dei salari nell’Europa Unita e viene fuori che la retribuzione oraria in Germania è più alta del 14,6% di quella italiana, che è sotto del 13% di quella inglese e del’11% di quella francese.
Siamo al dodicesimo posto nella classifica dei salari in Europa.
Queste cifre non rendono tutta la drammaticità della situazione, quasi settecentomila disoccupati in più l’anno scorso, destinati ad aumentare quest’anno con la fine della Cassa Integrazione per altre centinaia di migliaia di lavoratori, mentre la crescita dell’inflazione e l’aumento del costo della vita hanno eroso in misura consistente il potere d’acquisto dei lavoratori, senza considerare il gigantesco trasferimento di risorse avvenuto, nei dieci anni appena passati, dal lavoro dipendente, impiegati ed operai, al lavoro autonomo: imprenditori, liberi professionisti, commercianti. I primi hanno perso più del 3% di reddito calcolando l’inflazione ufficiale, che come sappiamo è molto più bassa di quella reale, mentre i secondi hanno vinto con oltre il 10% in più rispetto al carovita.
Particolare che fa incazzare ancora di più, tra il lavoro dipendente i dirigenti hanno vinto la battaglia contro il carovita con un recupero di ben il 14% in più rispetto alla corsa dell’inflazione.
Ci sarebbero altri dati molto interessanti da sottolineare, ma la conclusione comunque è una sola: si accentuano le differenze sociali, le categorie più forti ottengono benefici mentre il lavoro dipendente si impoverisce sempre di più e al suo interno le donne, i giovani, ma anche gli ultratrentacinquenni espulsi dal ciclo produttivo, ne pagano le conseguenze più drammatiche.
Sarebbe il caso che il prossimo governo, ove riuscissero a farlo, si occupasse in primis di questi problemi.
In ogni contrario, spetterà a noi tornare in piazza, in tanti, per pretenderlo.