Il rinnovo di un contratto di lavoro dovrebbe servire a recuperare il potere d’acquisto dello stipendio, ma con circa 50 euro nette e medie di incremento al mese, non si recupera un bel niente.
È incontrovertibile che l’aumento contrattuale a regime non solo non restituisce ai lavoratori e alle lavoratrici del settore quanto perso in termini economici a causa del blocco della contrattazione, ma non copre neanche, se non in minima parte, l’inflazione registrata negli anni dal 2010 al 2017, determinando danni irreversibili alle retribuzioni e agli istituti ad essa collegati. Sottolineiamo che l’importo degli arretrati copre soltanto i tre anni di vigenza contrattuale, ossia 2016-2018, mentre sono stati completamente cancellati gli anni precedenti di blocco contrattuale (dal 2010 al 2015). E’ come se virtualmente fossero stati cancellati sei anni di vita lavorativa dei dipendenti pubblici.
Quando il Presidente della delegazione ARAN, dr. Sergio Gasparrini, sottolineava il recupero dell’inflazione del 3,48% della retribuzione complessiva per tutto il pubblico impiego, la delegazione USB ha controbattuto che quel parametro si riferiva all’inflazione rilevata nel periodo compreso dal rinnovo contrattuale (2016-2018), mentre secondo i dati ISTAT, dall’ultimo contratto nazionale (fermo al 2009) l’inflazione ha raggiunto quasi il 12%. Mescolare le carte in tavola, come nel gioco delle tre carte, aiuta ad abbindolare gli spettatori. Spetta all’altra parte rimanere vigile ed attenta. A meno che, come in un gioco tra le parti, non si scelga di farsi incantare …
Abbiamo spiegato l’elemento perequativo, lo specchietto per le allodole. Nel contratto, l’elemento perequativo è presentato in una tabella a sé stante. Non è sommato all’incremento reale sotto la dicitura “incrementi retributivi fino al 31.12.2018”. Semplicemente perché l’incremento REALE contrattuale (i 50 euri netti) non scade il 31.12.2018, ma rimane acquisito alla retribuzione tabellare del dipendente pubblico. Scade invece l’elemento perequativo. Il Governo che verrà dovrà stanziare, bontà sua, ulteriori fondi nella legge di Bilancio per ripristinare l’incremento perequativo per il 2019 o per gli anni a venire.
Parliamo del salario accessorio. L’elemento che emerge vistosamente è l’avvallo definitivo alla logica che impernia la Riforma Brunetta.
Nell’ambito del sistema di valutazione, è d’obbligo stabilire che una quota dei fondi sia utilizzata per premiare con un compenso maggiore, il “SUPER-PREMIO”, una parte ristretta di SUPER-MERITEVOLI. Il super-premio non potrà essere inferiore al 30% del valore medio pro-capite dei premi attribuiti al personale valutato positivamente in base al sistema di valutazione adottato dalle amministrazioni.
Secondo la regola del contrappasso, toccherà agli stessi sindacati, che hanno sempre affermato di essere contrari alla riforma Brunetta, contrattare il contingente dei super-meritevoli e l’importo del super premio. A fronte del principio secondo cui le incentivazioni devono essere individualmente diversificate, non si comprendono le elucubrazioni di qualcuno che reclamizza, tutto al condizionale, almeno 1000 euro di incremento di salario accessorio procapite! Forse si tratta della famosa “media dei polli”.
Stiamo cercando di capire, tra le pieghe del contratto, quali sono gli ambiti e le possibilità di manovra demandate alla contrattazione integrativa, a parte la misura dei super premiati e del super premio.
La quasi totalità dei fondi, difatti, è già destinata, ossia vincolata all’utilizzo stabilito dal contratto. Sono vincolati i fondi utilizzati nell’anno precedente per le indennità di responsabilità, ossia non sono più disponibili alla contrattazione; una quota prevalente dei fondi è vincolata ai PREMI per la performance organizzativa (almeno il 30% della quota prevalente) e ai SUPER-PREMI individuali (che come detto non possono essere inferiori al 30% del valore medio pro capite attribuiti al personale valutato..); i fondi che la legge vincola alla destinazione per incentivare alcune categorie di personale confluiscono nel fondo, come per la remunerazione delle indennità per gli uffici tecnici (“tra cui a titolo esemplificativo e non esaustivo quelle di cui all’art. 113 del d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50”); dai fondi devono essere finanziate le progressioni orizzontali già acquisite dagli operatori sanitari dei policlinici universitari che transitano nelle università perché non più strutturati; i fondi che finanziano l’IMA sono vincolati, il che costituisce una previsione positiva, ma dobbiamo capire all’atto pratico come l’utilizzo si concilia con gli altri vincoli.
Questo contratto, inoltre, stabilisce una (ulteriore) norma penalizzante in base alla quale le attività sociali (cosiddetto welfare) sono finanziate con i fondi del salario accessorio (buoni pasto, indennità per attività sociali a favore dei figli dei dipendenti, bonus vari, attività ricreative, assicurazione sanitaria etc…). Fino ad oggi queste attività sono state finanziate con fondi distinti stanziati sui Bilanci di Ateneo. Con il nuovo CCNL le risorse finora utilizzate confluiranno nel nuovo “FONDO RISORSE DECENTRATE”, ma ogni nuova attività che si vorrà intraprendere a favore dei dipendenti difficilmente potrà essere realizzata, poiché dovrà essere posta a carico del nuovo Fondo Accessorio. Chi ci guadagna dall’introduzione di questa novità?
Per le progressioni orizzontali vi è un’amara sorpresa: le risorse utilizzabili sono quelle stabili del Fondo e solo a partire dal 1.01.2019, ossia a contratto scaduto, ci si può avvalere delle risorse aggiuntive previste nella misura del 0,1% del monte salari 2015. Una quota simbolica che potrebbe contribuire a far digerire questo contratto, anche se temiamo con scarso risultato.
Perché è vero che non sono previsti limiti preordinati al contingente di personale che potrà partecipare alle PEO, ma in realtà il limite è costituito dalla (in)consistenza dei fondi disponibili: tante risorse, tanti posti. Crediamo che non sia un ragionamento così complicato da assimilare. Pur valutando positivamente l’aumento dei livelli retributivi apicali (anche se ciò testimonia la resa davanti alla possibilità di poter riformare con questo contratto l’ordinamento universitario), non possiamo non considerare il contesto normativo ed economico che ne condizionano la fruibilità.
Sono previste, all’art. 21, misure per “disincentivare elevati tassi di assenza del personale”, ossia sanzioni contro gli assenteisti che non saranno soltanto individuali, ma anche collettive e colpiranno anche chi in ufficio è stato sempre presente al lavoro. L’Università sono tenute ad inviare al MIUR i dati sulle assenze dei dipendenti, “anche in serie storica, e ne valutano cause ed effetti. Nei casi in cui, in sede di analisi dei dati, siano rilevate assenze medie che presentino significativi e non motivabili scostamenti rispetto a benchmark di settore pubblicati a livello nazionale ovvero siano osservate anomale e non oggettivamente motivabili concentrazioni di assenze, in continuità con le giornate festive e di riposo” sono proposte misure finalizzate a conseguire obiettivi di miglioramento. Tali dati sono analizzati congiuntamente, presso il MIUR, da rappresentanti del Ministero, nonché di CRUI, CUN e CODAU e dalle Organizzazioni sindacali firmatarie del presente CCNL. Se non saranno riscontrati risultati positivi di miglioramento, i fondi del salario accessorio non potranno essere incrementati. La contrattazione integrativa disciplina gli effetti del presente comma sulla premialità individuale.
Oltre ai vincoli di destinazione dei fondi, un articolo del CCNL ribadisce che, anche se sono previste modalità di incremento delle risorse variabili, bisogna rispettare i tetti stabiliti dalle finanziarie di governo. Virtualmente il contratto prevede la possibilità di “fare”, in realtà si potrà fare ben poco e solo per pochi.
Infine, rispetto alla possibilità che solo i dipendenti di qualche università considerata “virtuosa” possano avvalersi di risorse variabili per incrementare il Fondo delle risorse decentrate, ci chiediamo come può un sindacato che si definisce generale esaltare il sistema della meritocrazia che, attraverso le empiriche regole imposte dal M.E.F. e applicate dall’ANVUR per finanziare gli Atenei, serve solo a giustificare la continua riduzione delle risorse agli atenei. Regole che stravolgono la funzione del sistema universitario diviso tra cosiddette università di serie A e B in competizione tra loro, tra dipendenti di serie A e di serie B che pur svolgendo le stesse attività percepiscono stipendi differenti. Si dividono gli atenei per poi dividere gli studenti sulla base della loro condizione sociale e tornare ad una università rigidamente classista.
Siamo ideologici? No, siamo un sindacato concreto che non si vuole far abbindolare.
Seguirà l’informativa sindacale sulle tematiche più o meno controverse dell’ipotesi di contratto collettivo nazionale.
19 marzo 2018
USB Pubblico Impiego – Università