Processo Galan, ecco perché il giudice ha condannato il capo dei vigili.
La tragedia di Marco Galan è stata determinata dal concorso di molteplici violazioni delle normalitive per la sicurezza sul posto di lavoro. Il vigile del fuoco che nel luglio del 2006 era impegnato nel piazzale della caserma di via Verga in un'operazione di manutenzione del tutto prevedibile e programmabile, è rimasto vittima di un gravissimo infortunio che, se quelle norme fossero state rispettate, si poteva assolutamente evitare. Quell'infortunio da oltre tre anni lo ha ridotto a uno stato vegetativo.
Per quella tragedia l'allora comandante provinciale dei vigili del fuoco, l'ingegner Michele De Vincentis, il 17 settembre scorso è stato condannato a 8 mesi di reclusione (e a una provvisionale di 175mila euro per Marco, il papà e la mamma) per lesioni gravissime colpose. Ora le motivazioni della sentenza che il giudice Piera Tassoni ha pronunciato al termine del processo con rito abbreviato, spiegano punto per punto il perché di quella condanna. Inflitta, lo ricordiamo, senza il riconoscimento di alcuna circostanza attenuante.
Motivazioni che si caricano "involontariamente" di ulteriori significati, se pensiamo che in questi giorni si sta celebrando il processo contro Antonio Galan, il papà di Marco, denunciato per diffamazione dallo stesso comandante De Vincentis. In qualità di comandante, spiega il giudice Tassoni, l'ingegner De Vincentis avrebbe dovuto provvedere a una serie di misure di sicurezza che al contrario, come hanno rimarcato sia i dati oggettivi (le fotografie) che le testimonianze dei vigili del fuoco, erano mancanti.
Marco Galan stava verificando la tenuta dei verricelli e per questo aveva posto in trazione, agganciandolo a due Land Rover, un cavetto di acciaio che si trovava a 50 cm da terra. In quel momento nel piazzale della caserma entrò un furgone Ducato di un corriere. Il conducente, alla velocità di 42 km all'ora e abbagliato dal sole, non vide il cavetto e lo tranciò. Il contraccolpo spostò uno dei mezzi pesanti, che travolse Galan provocandogli un trauma toracico massivo dal quale purtroppo non si è ripreso. Una tragedia evitabile, si diceva.
Primo: il piazzale della caserma era accessibile da mezzi interni ed esterni, ma tale promiscuità non è mai stata regolata da alcuna organizzazione. Quando il corriere entrò in caserma, nulla sapere e nulla poteva sapere delle operazioni che si stavano svolgendo in quel momento.
Secondo: non c'era alcuna segnaletica che indicasse la velocità da tenere. Il Ducato avrebbe dovuto procedere al massimo ai 20 all'ora, ma non c'era alcun cartello a indicarlo. La segnaletica è comparsa solo dopo l'incidente. Prima, si è giustificato il comandante, non era stato possibile installarla perché a fronte di una spesa prevista di 1.700 euro era necessaria un'autorizzazione che non era ancora arrivata. Circostanza smentita da un decreto del 1999 che fissava a 10 milioni di lire il tetto di spesa sotto il quale non era necessaria alcuna autorizzazione. E in ogni caso, osserva il giudice, l'assenza di segnaletica poteva e doveva essere compensata da altri accorgimenti, come un circuito di videosorveglianza.
L'assenza di telecamere interne è un altro punto contestato. Il piazzale, in altre parole, era una specie di porto di mare nel quale gli addetti alla centrale operativa non erano in grado di vedere e sapere chi andava e veniva. Quel giorno, in particolare - hanno testimoniato gli addetti - erano occupati a rispondere a numerose richieste di aiuto e non avevano la possibilità materiale di sorvegliare il piazzale.
Il Ducato dunque si presentò alla sbarra di ingresso, e questa gli venne semplicemente alzata senza nessun'altra indicazione. Del resto, non era stato definito alcun protocollo, alcuna procedura a cui attenersi in caso di operazioni di manutenzione in atto.
Lo stesso Galan, a cui la difesa ha tentato di attribuire eventuali imprudenze, non avrebbe potuto violare alcuna procedura perché... non esistevano procedure.
Una rete impressionante di negligenze nel quale è rimasto drammaticamente impigliato Marco Galan e con lui la sua famiglia. Quei genitori, scrive il giudice Tassoni, «che quotidianamente lo assistono, provvedendo integralmente ai suoi bisogni, con un peggioramento delle loro condizioni di vita». E un padre trascinato in tribunale per aver chiesto la verità sulla tragedia di suo figlio.
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