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Tematica

VENNE MAGGIO


Questo articolo, di Gianni Loy (professore ordinario di diritto del lavoro nell'Università di Cagliari), è stato pubblicato nel N. 49 del Manifesto Sardo

 

Venne Maggio, cantava Ivan.  “Venne Maggio e fu speranza”. Maggio è anche  il mese della Madonna, il mese delle rose.  A maggio si festeggia la festa della mamma. A maggio si festeggia anche il primo maggio.  Non a Cagliari, perché il movimento ha trovato la piazza occupata, e che occupazione, dalla Sagra di Sant’Efisio. Ma si festeggia in tutto il mondo, ed anche noi siamo stati e siamo soliti continuare a festeggiarlo, anche se la piazza del Carmine è riservata al folklore.  Ma i riti della festa son cambiati, da tempo, a poco a poco. Le canzoni di lotta dei lavoratori, per volere dei sindacati, hanno lasciato il posto alla musica “profana”. Anche di qualità, in una piazza del popolo gremita e teletrasmessa. C’è stato un tempo,  quando pensavamo di essere ad un passo  dal piantare le bandiere rosse  del lavoro nei gangli di una società borghese che sembrava (o ci sembrava) che  dovesse pagare un tributo al lavoro   che l’aveva fatta crescere. Ed il lavoro è ritornato in auge, per alcuni anni. Sembrava che quel tributo dovesse essere finalmente pagato: i lavoratori avevano conquistato il diritto di parola, lo Statuto dei lavoratori avrebbe presto riconosciuto la dignità del lavoro. Molti diritti solo astrattamente enunciati incominciavano ad essere rispettati. Ed Ivan della Mea  era rimasto persino un anno senza cantare: “un anno di silenzi per capire”. Perché, come avrebbe confessato: “la lotta  va vissuta e non cantata”. Ed invece va anche cantata! E l’abbiamo cantata a squarciagola. Ma le canzoni sono rimaste sempre le stesse. Le bandiere rosse continuavano a sventolare, ad ogni primo maggio, mentre la piazza si svuotava, a poco a poco, di operai e si riempiva di giovani. Il futuro. Coloro ai quali si sarebbe dovuto consegnare il testimone di una speranza che aveva incominciato a correre, come un brivido,  lungo la schiena dell’intero paese. In mano avevamo le carte, i diritti, lo Statuto dei lavoratori, la forza di sindacati che lottavano all’unisono. Avevamo la simpatia di una società che si liberava dal cappio del becero conservatorismo. Il lavoro era divenuto un valore universale. Non più solo patrimonio di quanti sognavano, a torto o a ragione, una repubblica di lavoratori, ma anche di quanti , all’interno stesso del capitalismo  riconoscevano il valore fondante del lavoro. La nostra stessa  Costituzione, del resto,  aveva scelto il lavoro come fondamento. Ed ancor prima, la Carta costitutiva dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro aveva scolpito tra i suoi principi istitutivi quello per cui “il lavoro non è merce”. Ed invece, lentamente, mentre sulla porta delle Istituzioni  rimanevano inutilmente affissi quei principi, il lavoro riprendeva a degradarsi, l’economia si riprendeva le praterie. Il diritto de lavoro, custode delle regole che tutelano la dignità del lavoro, veniva ridotto ad un ruolo ancillare a favore di un’economia che impazzava e veniva osannata. Vilipeso. Qualche pianto, il giorno delle tragedie più tragiche, per i morti sul lavoro. Solo un attimo, per  poi riprendere lo stillicidio sul costo “insostenibile” della sicurezza, sugli esoneri, per castrare gli Ispettori che dovrebbero prevenire e non possono. Ammoniti, minacciati persino perché non disturbino la macchina che manderebbe avanti il paese. Le regole, la sicurezza di un lavoro, di un reddito, sacrificati sull’altare della flessibilità. Facendo credere alla povera gente, e fingendo di credere, che sulla flessibilità si possa costruire il futuro dell’occupazione.  Opinione fallace, ma instillata con sapiente dosaggio sino ad essere metabolizzata anche da molti che si autodefiniscono progressisti e di sinistra. Così il lavoro, a poco a poco, è stato sacrificato sull’altare della nuova divinità, che si maschera da economia ed invece è finanza. Quella finanza che ha saccheggiato il mondo, con l’inganno,  e che ora, minacciando di trascinarci tutti a fondo, si impadronisce di quasi tutto il denaro fresco che ancora le banche centrali sono in grado di mettere in campo. Muoia Sansone con tutti i Filistei. Ed oggi, mentre per l’ennesima volta il popolo sardo si accinge a sciogliere il voto ricordando quel santo guerriero che lo ha salvato dall’invasione delle cavallette, mentre is traccas  occupano la piazza che avremmo voluto per la nostra festa, abbiamo una consapevolezza, una certezza in più. La crisi lo ha dimostrato in maniera  inequivocabile: non vi è alcun rapporto, neppure il più tenue, tra la riduzione delle tutele dei lavoratori in termini di reddito o di flessibilità, e la dinamica dell’occupazione.  Era ed è tutto falso. La flessibilità estrema, il precariato, i cococo e tutte le fantasmagoriche figure inventate in questi anni non hanno alcun potere di influire sul numero degli occupati. Sembra addirittura il contrario. La Spagna, che ha un tasso di flessibilità, secondo le statistiche europee, di quasi il 30% rispetto ad una media europea del 12%  (sic!) è il paese che ha visto schizzare verso l’alto in maniera più impressionante il tasso di disoccupazione alle prime avvisaglie della crisi. Consentiamo pure tutte le sfaccettature, ammettiamo pure gli errori. Ma una verità,  la verità che il lavoro è alla base della dignità delle persone, che senza tale dignità non abbiamo futuro e non abbiamo speranza, questa verità il primo maggio dobbiamo continuare a cantarla, ed ha spiegarla. Chi non ha lavoro non ha, ma soprattutto non è, ammoniva tempo fa un collega giuslavorista,  al tempo in cui forse la maggior parte dei miei colleghi erano ancora dalla parte dei lavoratori.
Va cantata e va vissuta. Allora: Forza Giuan, l’idea non è morta.

 

Gianni Loy   -   www.manifestosardo.org