Prima erano i runner o i bagnanti solitari, ora i giovani frequentatori di discoteche o chi rientra da Grecia, Spagna, Croazia e Malta (e perché non dalla Germania o Stati Uniti visto il vertiginoso aumento di contagi in questi Paesi?)
Tutta la gestione dell’emergenza sanitaria, dalla sua annunciata esplosione ad oggi è stata orientata lungo due direttrici:
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- anteporre il profitto e le ragioni della lobby economiche alla tutela della salute;
- scaricare sui comportamenti individuali la responsabilità di scelte politiche scriteriate e criminogene.
Lo abbiamo plasticamente verificato in Val Seriana dove, sotto la spinta di una Confindustria sempre più aggressiva e sprezzante del diritto alla salute, le fabbriche hanno continuato a produrre a pieno ritmo fino al 23 marzo e circa un 50 per cento di esse non è stata minimamente intaccata nemmeno dal lockdown, mentre su tutto il territorio nazionale si perseguitava grottescamente chi si sgranchiva le gambe in qualche luogo isolato.
Lo abbiamo verificato in questa estate in cui la scelta politica di piegarsi ai diktat dell’industria del turismo e del divertimento è stata derubricata ad “irresponsabilità dei giovani”, rei di ammassarsi in discoteca, luogo che per definizione non può che determinare assembramenti.
D’altronde non sarà sfuggito a nessuno il repentino cambio di narrazione: dall’allarmismo che accompagnava il lockdown (che comunque faceva salve le ragioni della produzione a tutti i costi) alla colpevole superficialità, fuori da ogni evidenza scientifica, con cui governo ed amministratori locali garantivano che il peggio era oramai alle spalle ed esortavano a trascorrere le vacanze nelle proprie regioni, senza aver predisposto alcun controllo o piano di prevenzione.
Il provvedimento con il quale il governo – tardivamente – chiude le discoteche ed impone in maniera confusa l’uso delle mascherine dalle 18 in poi, è esattamente interno alla logica con la quale sin dall’inizio è stata affrontata l’emergenza sanitaria: agire in maniera randomica, con provvedimenti spot, ed assunti sempre dopo l’esplosione del problema.
Non occorreva essere virologi per immaginare che la totale riapertura delle attività, la piena mobilità tra Stati e tra Regioni, e soprattutto una narrazione tutta protesa ad esaltare il “modello italiano” per minimizzare gli effetti del virus (d’altronde, come attirare turisti in Italia se non fornendo una narrazione rassicurante?) avrebbe prodotto un rimescolamento di larghe fasce di popolazione, con inevitabile aumento della curva dei contagi.
E non occorreva essere virologi per comprendere che un rientro ordinato e prudente alla normalità avrebbe dovuto essere necessariamente accompagnato da un piano e da una seria programmazione a tutela della salute, per scongiurare la “seconda ondata” di contagi.
Per non cedere al ricatto di Confindustria & company, e per non sbandare pericolosamente tra diverse narrazioni à la carte, occorre in primo luogo non abboccare al tranello della individualizzazione delle responsabilità: d’altronde è davvero difficile pretendere comportamenti individuali “virtuosi” dinanzi a narrazioni ufficiali così strumentalmente altalenanti.
Occorre invece puntare il dito contro un modello economico e sociale che non arresta la sua spietatezza e sudditanza alle ragioni dell’economia nemmeno dinanzi alla pandemia. Un modello incarnato senza distinzione da tutta la classe politica che oggi siede in Parlamento, ma le cui leve decisionali principali sono state trasferite a Bruxelles.
E qui l’emergenza sanitaria si intreccia con quella economica e sociale: come pensare di garantire davvero il diritto alla salute senza investire risorse ingenti sulla sanità (non la trappola del MES!), e più in generale stanziando tutto ciò che è necessario per assicurare la continuità del reddito a chi, in conseguenza della pandemia ha perso il lavoro, nonché un reddito dignitoso a chi non lo ha mai avuto?
E come farlo senza sfidare la brutalità di una Confindustria che invoca ed ottiene (con un piccolo posticipo) libertà di licenziamento “per non pietrificare l’intera economia”? Oppure senza rompere con quella governance europeista che, attraverso il tanto osannato Recovery Fund, in realtà impone condizionalità e sorveglianza economica ed utilizza l’emergenza sanitaria per rafforzare la gerarchia all’interno dei paesi europei?
Possiamo declinarlo come vogliamo e preferiamo, ma il punto vero è che il problema principale non è solo la pandemia quanto il capitalismo, la cui crisi ha assunto anche la forma dell’emergenza sanitaria.
Ed inevitabilmente la soluzione non può che essere il superamento di quel modello, per non continuare in questo mortifero incubo senza fine.
Alessandro Giannelli
Coordinamento nazionale USB - EUROSTOP