Sono oltre venti anni che segnaliamo che il modo di produzione capitalista è attraversato da una profonda crisi sistemica iniziata nei primi anni Settanta con la chiusura unilaterale da parte degli USA degli accordi di Bretton Wood.
Quindi, non una ciclica crisi congiunturale né una profonda crisi strutturale, ma una incapacità da parte del sistema di realizzare tassi di profitto sufficienti per far sì che si possano avere gli investimenti adeguati per garantire quella “normale” accumulazione di capitale che consenta crescita quantitativa continua, unica condizione microeconomica e macroeconomica per la sopravvivenza dell’impresa capitalista e per la riproduzione e lo sviluppo quantitativo del sistema capitalista.
La situazione alla quale assistiamo invece da oltre quarant’anni è quella di una crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione, da cui consegue anche una indotta crisi sotto consumistica a causa della contrazione continua dei salari diretti, indiretti e differiti, che realizza una costante e latente condizione di recessione (cioè di perdita sostanziale di ricchezza realizzata dal sistema paese, misurata attraverso il maledetto indicatore del Prodotto Interno Lordo).
Per lunghi decenni i governi e gli istituti di statistica hanno tentato di tener nascosto il dato recessivo con interventi macroeconomici diretti all’abbassamento del costo del lavoro (taglio dei salari, precarizzazione, distruzione di massa della forza lavoro immigrata, distruzione dello Stato sociale e privatizzazioni), guerre per l’accaparramento del petrolio e delle risorse primarie, finanziarizzazione dell’economia, deindustrializzazioni, delocalizzazioni, uso del debito pubblico per sostenere la finanza e i tantissimi trucchi contabili sui dati della disoccupazione o della messa a contabilità dell’economia criminale, dell’economia di guerra ecc. per tentare di dimostrare che erano in atto piccole crescite quantitative del PIL o condizioni critiche di stagnazione ma senza mai ammettere la reale situazione di recessione.
Ormai siamo giunti alla resa dei conti, tutti gli organismi economici nazionali e internazionali dicono apertamente che il sistema è in piena recessione e, in particolare, di ciò risentono alcuni paesi a capitalismo maturo come l’Italia.
La competizione politico economica interimperialistica con la connessa guerra protezionistica, il forte calo della crescita del PIL dei paesi dei BRICS, lo scoppio di bolle speculative finanziarie e immobiliari, i margini ormai ridottissimi per ulteriori tagli al costo del lavoro e alla spesa sociale, l’insostenibile condizione di soffocamento attraverso politiche monetariste e restrittive che realizzano un vero e proprio massacro sociale da parte dell’Unione Europea, rendono ormai evidente a tutti il significato e i costi sociali di una ormai lunga fase di dinamica depressiva dell’economia, un lungo contesto recessivo insito nella crisi sistemica.
Le nuove previsioni dell’ISTAT sulla “crescita negativa“ del PIL, (ancora un ossimoro: la recessione è decrescita quantitativa e qualitativa) sono né più né meno la conferma di ciò che sosteniamo da anni ma soprattutto di ciò che subiscono i lavoratori, i disoccupati, i migranti ormai da decenni e ormai anche il Fondo Monetario Internazionale dichiara che la recessione italiana determina un rischio globale e la Banca d’Italia parla chiaramente di recessione nel 2019 più alta di quella prevista.
Anche dal punto di vista contabile l’Italia è in recessione tecnica poiché il PIL ha segno negativo già da due trimestri di fila nonostante i trucchi contabili e nonostante i “buoni” propositi del governo Conte.
Questa recessione tutto è meno che transitoria, tutto è meno che locale e settoriale: la vera emergenza si chiama logica del profitto e quindi modalità di essere del sistema del capitale e gli scenari sono quelli di un ulteriore peggioramento della situazione internazionale e ciò significherà perdita di ulteriori quote di mercato nell’export e in generale ancora perdita di posti di lavoro, continua contrazione del potere di acquisto salariale e continui tagli alla spesa sociale senza ovviamente alcuna possibilità di investimenti pubblici a carattere sociale che creino lavoro vero a tempo pieno a pieni diritti e a pieno salario.
E non sarà certo l’assistenzialismo del “Welfare dei Miserabili” e degli esclusi a creare ciò che ipocritamente il governo chiama “un po’ di felicità per tutti”, poiché se c’è un modo per definire questa situazione recessiva per le drammatiche ricadute sul mondo del lavoro, del non lavoro e del lavoro negato è solo quello di una decrescita infelice per il massacro sociale.
Unione Sindacale di Base