LETTERA APERTA AL MINISTRO CLINI
Ill.mo Ministro, in occasione della Sua ultima venuta a Taranto, ebbi l’onore di scambiare alcune opinioni con Lei sulla questione Ilva. Ciò avveniva intorno al tavolo istituito presso la Prefettura. In tale circostanza, tra le altre cose, Lei espressamente faceva riferimento al principio di –“chi inquina, paga”-, riferendosi, naturalmente, ai danni prodotti dalla proprietà Ilva in questi ultimi diciassette anni. Il pensiero e la posizione dell’USB, ormai noti e in controtendenza con quelli di altre OO.SS. si basavano e si basano su due aspetti fondamentali: “esproprio senza indennizzo e nazionalizzazione della fabbrica”. Ciò, perché, il Gruppo Riva non merita alcuna credibilità e fiducia, ormai. Lei, facendo riferimento alle normative europee, sosteneva che non fosse possibile demandare allo Stato la gestione dell’azienda, mentre Le facevo notare che vi erano stati altri precedenti, come la Francia, per esempio. Le ricordavo, inoltre, che l’intervento statale è contemplato nel D.L. 231/2012, fortemente voluto da Lei, Sig. Ministro, nel caso in cui l’azienda non dovesse ottemperarvi. Fatte le suddette premesse, Le vorrei far presente quello che accade qui, in fabbrica. L’Ilva, continua a seminare panico tra i lavoratori, angosciati dal sistematico ricatto posto in essere dalla famiglia Riva, in particolar modo da quando essa è oggetto di attenzione da parte della magistratura tarantina. E’ già divenuta prassi la frase del Presidente Ferrante -“non garantiamo lo stipendio del prossimo mese”-, come non possiamo dimenticare lo “scherzo” sulla tredicesima mensilità, retribuita solo alla vigilia di Natale. Siamo di fronte ad un imprenditore senza scrupoli che, pur di affermare il proprio controllo sulla massa, non disdegna di ordinare l’inaudita “marcia dei 7000” che, come Lei saprà sicuramente, ha offeso la città e i cittadini di Taranto quel “glorioso” 30 marzo 2012. Riva non si è limitato a questo grave attacco e ha promosso altre iniziative che non dimenticheremo mai, dato che i blocchi delle strade, compiuti su ordine specifico dei preposti Ilva, hanno provocato non pochi disagi ad una città già violentata dal “signore” dell’acciaio. Ho voluto farle una piccola cronistoria degli ultimi eventi poiché, ancora oggi, assistiamo all’ennesimo trucco posto in essere dal patron Riva. Faccio riferimento alle migliaia di dipendenti che da mesi sono in cassa integrazione, ordinaria e straordinaria e ai tanti operai delle imprese di appalto, meno tutelati, che hanno perso il lavoro o sono in cassa. 1393 è il numero totale dei lavoratori Ilva che si vogliono aggiungere agli altri, già penalizzati e usati come scudi umani da molto tempo. Questa volta, però, si tratta di richiesta in deroga della cassa integrazione, motivata dalla -“mancanza di presupposti di legge”- che non consentono il ricorso alla CIG o CIGO, quali ammortizzatori sociali, dall’andamento negativo del mercato e dal “chiodo” fisso, aggiungo, del prodotto ancora sottoposto a sequestro e non vendibile. La riflessione che tutti farebbero in questo momento, prendendo spunto dal principio da Lei enunciato (chi inquina paga) è d’obbligo: chi ha sbagliato? Chi ha inquinato? Chi deve pagare? A me e, credo di poter interpretare il pensiero di ogni cittadino e dei lavoratori, sembra che, ancora una volta, si tenti di scaricare il peso degli errori e degli orrori su chi non ha assolutamente colpa, facendo ricorso a corsie preferenziali per attingere alle casse dell’ente statale, di conseguenza dei cittadini. Personalmente ed a nome dell’O.S. che rappresento, non intendo assecondare, moralmente, operazioni che mirino alla cura di un “malato cronico immaginario” che, a giudicare dalle notizie di stampa, si presume abbia trasferito ingenti somme di denaro in aree di questo pianeta sconosciute ai più, evadendo per milioni di euro il fisco, secondo altrettante informazioni apparse di recente sui giornali. Non è più accettabile, pertanto, che vengano distratte somme versate con sacrificio dai cittadini per sanare misteriosi buchi finanziari nel Gruppo Riva. Questa città, questa collettività, gli oltre 11.000 lavora dell’Ilva e i 4000 dell’appalto, non possono più essere tenuti in ostaggio, utilizzati per forme di ricatto e di gratuita violenza psicologica, allo scopo di ostacolare il percorso della giustizia: in tribunale, gli imputati vanno difesi dagli avvocati. E’ superfluo ricordarLe, Sig. Ministro, ma mi perdonerà se lo faccio, che questo territorio conta innumerevoli decessi e altrettanti ammalati per cause riconducibili all’avvelenamento dell’ambiente provocato da una politica industriale cinica ed incosciente, assecondata da una classe dirigente disattenta e, in qualche caso, connivente. I danni prodotti dalla corsa al massimo profitto, accanto alle tante vittime sul lavoro in Ilva, hanno concorso in maniera significativa alla chiusura di altre imprese, nel terziario, nell’agroalimentare e nel turismo, mettendo in ginocchio l’economia jonica ed elevando all’ennesima potenza il grado di inoccupazione. Non solo, quindi, il disastro ambientale, l’emergenza sanitaria, ma anche la rovina sociale sarebbe da imputare alla famiglia Riva, i cui profitti miliardari ottenuti nel tempo li deve alla capacità e al senso del dovere dei lavoratori, spesso offesi e privati della libertà di pensiero e di parola. Per le ragioni contenute nella presente, Sig. Ministro, non vi è più spazio per le escamotages e, per questo, si rende indispensabile una drastica terapia d’urto, un cambio di rotta rapido, prima che sia troppo tardi. Uno Stato democratico, in un Paese civile la cui Carta Costituzionale insegna che la Legge è uguale per tutti, che la salute è il bene primario da tutelare e che il lavoro equivale alla dignità della persona, non può dimenticare il suo popolo per rincorrere chi resta in attesa di giudizio. Riva non assicura più la tenuta del suo impero, tanto meno, suppongo, le Istituzioni potrebbero più riconoscere fiducia a tale proprietà. Motivo per cui non andrebbe più considerato come interlocutore, ma estromesso dal circuito industriale, prelevando e confiscando preventivamente i beni di sua proprietà, riportando nelle mani dello Stato ogni sito in suo possesso. Da qui ripartire nel rispetto delle prescrizioni di legge, per recuperare salubrità, serenità e sano sviluppo in un territorio che non meritava tanta cattiveria. Cordialità.
Taranto, 06.02.2013
Coordinamento USB-Ilva-Taranto
Francesco Rizzo