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Donne

45 mila lavoratrici in un anno costrette a lasciare il lavoro, USB: essere “donna e madre” in questo paese conviene solo a Meloni!

Roma,

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro certifica che nel 2022 circa 45.000 donne sono state costrette a lasciare il lavoro per dedicarsi al lavoro di cura e che la maggior parte di queste, il 79,4%, si colloca nella fascia 29/44 anni.

Questi dati, già di per sé piuttosto eloquenti, forniscono una più chiara lettura se messi in relazione con quelli forniti dall’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno (SVIMEZ) e da Confcommercio.

Ne esce fuori un quadro desolante, nel quale la partecipazione delle donne al mondo del lavoro in Italia è di 11 punti percentuali al di sotto della media europea (48,2% vs 59,5%): praticamente metà delle donne italiane non lavora. Al Sud il divario raggiunge i 24 punti percentuali in meno. Per avvicinarci alla media europea di occupazione femminile dovrebbero essere impiegate 2,3 milioni donne in più.

Quindi, da una parte, il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è tra i più bassi e, dall’altro, migliaia di donne sono costrette a lasciare il lavoro per occuparsi dei figli e/o degli anziani. E, attenzione, perché il dato non è neutro, a rinunciare al lavoro sono infatti, nel 93% dei casi, donne appartenenti alla classe sociale più bassa: operaie e impiegate. Quelle donne per cui il salario non riesce a sostenere nemmeno i costi degli asili nido o dell’assistenza agli anziani.

Per avere un ulteriore termine di paragone, a conferma della drammaticità del problema, basti pensare che solo il 7,1% delle dimissioni riguarda gli uomini e che, il 79% circa di queste, non avviene per necessità ma a seguito di una nuova opportunità di lavoro, di un’altra città o di un diverso incarico.

Di base i problemi sono sempre gli stessi: in primis quello culturale, che vuole le donne come “naturali” detentrici del lavoro di cura e i continui tagli al welfare e ai servizi pubblici che non solo ricacciano le donne dentro casa ma incidono fortemente sulla natalità, che continua ad essere in caduta libera e per niente scalfita dalla pelosa politica dei bonus elargiti dal governo di turno.

Senza contare che in assenza di autonomia economica, ulteriormente aggravata dal taglio al reddito di cittadinanza, i percorsi di affrancamento dalla violenza di genere diventano impossibili da praticare.

Se il nostro Paese è al 63esimo posto, su 146, dopo Uganda e Gambia, nella classifica mondiale del World Economic Forum e al 25esimo, su 35 Paesi in Europa, per divario di genere, dovuto a un combinato disposto di meno lavoro, salari e pensioni più basse e tanto part time involontario, le responsabilità non possono essere attribuite al solo governo Meloni, dal quale, però, non si apprezza alcuna inversione di tendenza, nonostante continui a cavalcare in maniera caricaturale il suo essere “donna e madre”.

Il governo Meloni ci sta mettendo, anzi, molto di suo per aggravare la situazione: dal taglio al reddito di cittadinanza a quello delle pensioni in settori a prevalenza di occupazione femminile; dal peggioramento dei requisiti per l’uscita anticipata (opzione donna) al taglio di centomila posti negli asili contenuto nel PNRR; dalla soppressione della riduzione dell’Iva su assorbenti, pannolini e prodotti per l’infanzia fino al taglio ingente di fondi ai centri antiviolenza e allo sgombero violento dei consultori autogestiti. Per essere al primo anno di governo, c'è di che stare allegri!

Il dato delle lavoratrici dimissionarie non è solo impressionante di per sé ma in costante aumento (17,1% in più rispetto all’anno precedente) e ci mette di fronte ad un Paese che senza un ingente investimento sullo stato sociale è senza futuro.

Un problema che dovrebbe riguardare tutti, non solo le donne. Sicuramente riguarda l’Unione Sindacale di Base che, della lotta alle disuguaglianze e del rilancio dello stato sociale e della difesa dei servizi pubblici ne ha fatto un tratto distintivo della propria funzione. Sempre, con qualsiasi governo in carica.

Unione Sindacale di Base