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Tim, dalla privatizzazione: cronistoria di una Eutanasia passiva

Nazionale,

Telecom è senza dubbio il più grande scempio della storia industriale italiana degli ultimi 25 anni. Lanciata come “la madre di tutte le privatizzazioni”, la società di telefonia non solo non è mai riuscita ad affrancarsi dal potere politico che spesso ne ha determinato le sorti senza tutelare l’interesse pubblico, ma sulla sua strada ha trovato imprenditori rapaci che l’hanno massacrata per fare soldi e facile preda di speculatori finanziari. Caricata di debiti non ha più avuto risorse da investire nella modernizzazione della rete, infatti abbiamo ancora 2,8 milioni di abitazioni senza connessione. La politica italiana ha condiviso e agevolato un modello di sviluppo più interessato al profitto di pochi, aggravando la situazione del settore delle telecomunicazioni e ampliando il digital divide su tutto il territorio nazionale.

Dopo la presentazione del nuovo piano strategico del nuovo amministratore delegato Pietro Labriola, più che altro fondato su ipotesi e poche certezze, resta da capire quali saranno le vere intenzioni dei soci e della politica.

Chi veramente ci ha guadagnato con l'ex monopolista pubblico delle telecomunicazioni, sono stati gli amministratori delegati e i manager, i quali tra stipendio, bonus, stock option, clausole di non concorrenza ecc. hanno fatto “il pieno”, incassando buonuscite complessive per oltre 100 milioni di euro.

Mentre ai lavoratori si è chiesto senza alcun pudore di “tirare la cinghia” per risollevare le sorti dell’azienda, subendo sempre maggiori sacrifici: 11 anni di Cassa Integrazione (CIGS), riduzione delle retribuzioni lorde a ogni rinnovo di contratto, erogazione di vere e proprie “elemosine” di aumento e tagli consistenti dei lavoratori.

Conoscere la storia per comprendere il presente e, dunque, per difendere e costruire il futuro è sempre stato un assunto acclarato. Forse mai come in questo momento.

Partiamo dall’inizio. Le origini

Le origini della Telecomunicazioni in Italia risalgono al settembre del 1923, quando il primo Governo Mussolini il governo considerata la profonda crisi del settore telefonico e le sempre più pressanti propensioni privatistiche post-belliche, decise di dividere in cinque zone, gestite da cinque operatori privati differenti.

La decisione di affidare a più concessionarie la gestione del sistema telefonico fu determinata dall'esigenza di impedirne la concentrazione nelle mani di un unico centro di potere privato o del capitale straniero, dato che le maggiori aziende costruttrici di impianti telefonici che operavano in Italia erano straniere oppure sotto il controllo di capitale straniero.

STIPEL, o Società telefonica interregionale piemontese e lombarda, che operò tra il 1925 e il 1964 nelle province delle attuali regioni Piemonte, Valle d'Aosta e Lombardia, e principale azionista la SIP (Società idroelettrica Piemonte).

TELVE, o Società Telefonica delle Venezie, e principale azionista la SIP (Società idroelettrica Piemonte), fondata nel 1923, a Venezia, sotto il nome di Società anonima telefonica veneta, da un gruppo di industriali di differenti società telefoniche.

Quella dell’Italia centrale e della Sardegna si chiamava TETI (Società TElefonica TIrrena) che operava in Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna e nel circondario di Orvieto in Umbria.

La TIMO, sigla di Telefoni Italia Media Orientale S.A., fondata il 20 dicembre 1923 con il nome di Società Abruzzese e Molisana Telefoni SA dalla Cassa di Risparmio di Rimini e della Società Adriatica Telefoni. Aveva sede a Roma, con competenza su Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Abruzzo e Molise

La Società Esercizi Telefonici (SET) fu una società anonima costituita il 24 ottobre 1924 con sede a Roma, da un gruppo di imprenditori di Biella e dalla Ericsson italiana, con competenza su Campania, Puglie, Calabria e Sicilia. In seguito, sarà trasformata in S.p.A.

Bisognerà attendere il 1964, prima che tutte le concessionarie venissero fuse e incorporata nella SIP (Società idroelettrica Piemonte), a opera dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che acquisto nel 1958 i pacchetti azionari di maggioranza e li trasferì alla STET (Società Torinese Esercizi Telefoni).

Negli anni che seguirono ci furono altre operazioni, tra cui cessioni di azioni, ristrutturazioni, crisi, etc. ma soprattutto ci fu l’innovazione tecnologica che avanzava e alle quale la SIP non poteva sottrarsi.

Dalla SIP a Telecom Italia

E a trent’anni dalla nascita di SIP, nel 1994 nacque Telecom Italia, come previsto dal riassetto delle telecomunicazioni fatto dall’ IRI, dalla fusione tra la SIP e le quattro società del gruppo Stet, IRITEL, TELESPAZIO, ITALCLABE e SIRM - Società Italiana Radio Marittima S.P.A., come conseguenza diretta della progressiva privatizzazione del settore delle comunicazioni avviato negli Stati Uniti già negli anni Ottanta.

Nel 1995 con una scissione nasce TIM (Telecom Italia Mobile), il primo operatore italiano dedicato esclusivamente alla telefonia mobile, controllata al 63% da STET.

Nel 1997 la Finanziaria STET e Telecom Italia vengono fuse, mantenendo il nome della seconda. Intanto Seat, società editrice delle Pagine Gialle inizia il processo di privatizzazione grazie alla cordata di azionisti guidata da De Agostini, principale azionista, lasciando a Telecom il 20% del capitale.

Telecom Italia S.p.a., dall’alto del suo monopolio ha continuato a rinnovarsi e ad evolversi fino a diventare il sesto operatore al mondo di telecomunicazione a livello mondiale, oggi è diciassettesima.

La privatizzazione, la madre di tutte le privatizzazioni.

Nell’ottobre del 1997 quando scatta quella che fu definita “la madre di tutte le privatizzazioni”, con al governo Romano Prodi è la quarta impresa in Italia per fatturato: l’equivalente di 23,2 miliardi di euro, e una elevata redditività.

Non ha debiti netti, conta una trentina di partecipazioni internazionali, un patrimonio immobiliare pari a oltre 10 miliardi di euro e 120.345 dipendenti. Viene ceduta dal ministero del Tesoro (il ministro era Carlo Azeglio Ciampi), per mettere a posto i conti e raggiungere così l’obiettivo dell’entrata nell’euro a tutti i costi, decide di privatizzare il meglio che c’è.

Il Ministro del Tesoro esce quasi completamente dall’azionariato, Telecom Italia va sul mercato con la più ampia offerta di titoli fatta da un governo italiano: viene superato il milione di richieste, il prezzo di collocamento è 10.902 lire (5,6 euro) e dalla vendita del 35,26% del capitale si ricavano 26 mila miliardi di lire (circa 14 miliardi di euro).

L’obiettivo dell’OPV (Offerta Pubblica di Vendita) è riuscire a creare un nocciolo duro, vendendo le azioni a pochi soggetti che mantengano l’unità aziendale.

Tale intento fallisce: Il gruppo di riferimento tanto corteggiato dal governo è guidato dal gruppo Fiat, che acquista appena il 6,6% delle azioni, e attraverso l’Ifil la famiglia Agnelli con solo lo 0,6% assume il comando.

L’assemblea degli azionisti elegge il nuovo board: amministratore delegato e presidente rimangono, rispettivamente, Tomaso Tommasi di Vignano e Guido Rossi.

Tra gli azionisti ci sono la famiglia Agnelli e diversi istituti di credito. Telecom Italia è una società ad azionariato diffuso, quella che gli americani definirebbero “public company”.

Il 27 ottobre Telecom Italia inizia le contrattazioni in Borsa.

Nel novembre 1998, franco Bernabè diventa il nuovo amministratore delegato di Telecom Italia.

L’Opa di Colaninno. I capitani coraggiosi.

Nel febbraio del 1999, una cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno tramite la controllata Tecnost lancia un’Opa sulla totalità delle azioni di Telecom Italia con un’operazione mista (contanti-obbligazioni-azioni).

Parte del finanziamento arriverà dalla cessione di Omnitel e Infostrada. Olivetti fissa al 35% la soglia minima per considerare valida l’Opa e tra il 35% ed il 67% Ivrea “si riserva di decidere”.

Il 21 maggio Olivetti annuncia di aver superato il 50 per cento di adesioni.

L’Opa è riuscita. Il 28 giugno, con disappunto di Franco Bernabè che, come contromossa, propone un’Opa di Telecom su Tim, Roberto Colaninno detiene il 51,02% della società e diventa il nuovo presidente e amministratore delegato di Telecom Italia.

L’operazione da 102 mila miliardi di lire (circa 50 miliardi di euro) sulla totalità delle azioni di Telecom Italia è quasi tutta a debito, garantito da Comit, Cariplo, Monte dei Paschi, Bnl, Banca di Roma, Commerzbank, Bank of America, Mediobanca, Chase Manhattan, Lehman Brothers.

Olivetti ci mette 10 miliardi di euro, ricavati dalla vendita di Omnitel e Infostrada, da cui nascerà il colosso mondiale delle tlc Vodafone.

Una piramide di società

Tecnicamente l’offerta pubblica è lanciata da Tecnost, società quotata controllata da Olivetti, che rileva il 52,12% di Telecom Italia. Ad indebitarsi è quindi la Olivetti attraverso la controllata Tecnost. Olivetti a sua volta è controllata dalla finanziaria lussemburghese Bell, in cui Roberto Colaninno e il manager bresciano Emilio Gnutti hanno fatto confluire un gruppo di 150 investitori (per la maggior parte schermati da società offshore).

Sopra la Bell ci sono la Fingruppo di Colaninno e la Hopa di Emilio Gnutti. Un sistema a piramide che permette il controllo di Telecom con appena l’1,5% del capitale.

Ad appoggiare la scalata è il governo guidato allora da Massimo D’Alema, mantenendosi neutrale oltre che bocciare le azioni di difesa studiate da Telecom Italia (la fusione con Deutsche Telekom, oggi terzo gruppo al mondo), non esercitando il diritto di veto (golden share), impedendo con ordine scritto a Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, di valutare opzioni più favorevoli per gli azionisti, e battezza come “capitani coraggiosi” gli imprenditori della cordata.

Nessun Paese ha mai accettato un’OPA ostile nei confronti di una società strategica, ma tant’è.

Arriva Tronchetti Provera. I capitani incassano e lasciano il debito

Il problema dei nuovi soci è trovare il modo di far affluire i ricchi profitti di Telecom lungo la cascata di società e tamponare i debiti. L’intenzione di Colaninno è quella di fondere Tecnost e Telecom (leveraged buyout), ma il Codice civile italiano vieta la fusione fra la società veicolo che si indebita al fine di acquisire la società madre e ripagare con la cassa generata da quest’ultima.

Tenta allora di trasferire il controllo di Tim a Tecnost, un’operazione che avrebbe penalizzato gli azionisti di minoranza e definita dal Financial Times “una rapina in pieno giorno”, infatti la sola indiscrezione provoca un’ondata di vendite. Un piano industriale non c’è.

Nel 2001, Roberto Colaninno e soci dopo diverse trattative vendono tutto il pacchetto portandosi a casa una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro e la Imsi, trovando l’accordo con Benetton e Marco Tronchetti Provera, presidente di Pirelli.

Con circa 14 mila miliardi Marco Tronchetti Provera attraverso la società Olimpia con dentro la famiglia Benetton e altri investitori italiani, comprano dalla finanziaria lussemburghese Bell la quota di controllo di Olivetti che a sua volta possiede la maggioranza di Telecom.

Anche questa operazione quasi tutta a debito: con 7,2 miliardi di euro Olimpia si prende il 27% delle azioni Olivetti e il comando di Telecom.

I soldi sborsati da Tronchetti Provera di tasca sua equivalgono a meno dell’1% del capitale Telecom.

Nel 2003 cambia il diritto societario: il meccanismo del leveraged buyout diventa legittimo e la fusione tra Olivetti e Telecom stavolta si può fare.

Questo rende possibile il trasferimento dei ricchi flussi di cassa lungo la catena di controllo, ma scarica definitivamente i debiti in bilancio sull’azienda di telecomunicazioni da cui non si è mai veramente ripresa.

I debiti crescono ancora

La stagione Pirelli è quella che dura di più. Il presidente Tronchetti Provera punta allo sviluppo di Internet attraverso la banda larga (si passa da 390 mila linee a 6,7 milioni nel 2006), tratta una partnership con la News Corp di Murdoch per la produzione di contenuti, avvia accordi con la spagnola Telefónica per allargare il mercato.

Per abbattere il debito vende gli immobili che restano, partecipazioni internazionali per 16,4 miliardi di euro e svaluta attività per circa 11,8 miliardi di euro. I dividendi sono molto generosi con i soci.

In 6 anni il fatturato resta costante attorno ai 30 miliardi l’anno, l’utile netto a 3 miliardi, e agli investimenti viene destinato il 17,5% del fatturato.

All’inizio del 2005 Telecom lancia un’Opa sulla controllata Tim che porterà alla fusione delle due società. L’acquisizione pesa sul debito di Telecom e alle società collegate che riesplode a 46,9 miliardi da cui la compagnia non riuscirà più a sollevarsi.

L’arrivo di Guido Rossi

Nel 2006, secondo governo Prodi, Rovati, consigliere di Palazzo Chigi, fa circolare un piano di scorporo della rete.

La politica torna ad occuparsi di Telecom. La società è impiombata, il titolo in caduta libera.

La successiva decisione di scorporare Tim per una possibile vendita solleva i dubbi del governo (premier Romano Prodi) e Tronchetti Provera decide di lasciare la presidenza.

Torna Guido Rossi. Viene creato un “patto di controllo” tra i principali azionisti del gruppo: Olimpia, Mediobanca e Generali.

Gli spagnoli di Telefónica e Telco

Nel 2007, con il titolo in caduta, Telecom Italia, che non riesce a risolvere il problema dell’alto indebitamento, avvia i contatti con Telefónica. Ad aprile Guido Rossi si dimette dalla presidenza.

Poco dopo un gruppo di società italiane Telco (Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo e i Benetton con Sintonia) insieme alla società spagnola Telefonica lancia un’offerta per rilevare il 23% di Telecom che era controllata da Pirelli tramite Olimpia.

Azionista di riferimento di Telecom Italia diventa la newco “Telco” con il 23%, su cui pesano 35,7 miliardi di debito.

La collaborazione con Telefónica è difficile, e a giugno 2014 gli investitori istituzionali cedono le loro quote a Telefónica.

Dunque, l’operatore spagnolo, con solo il 15% delle azioni comanda Telecom. Ma dura poco. Più interessato agli asset sudamericani di Telecom e per nulla al rilancio della compagnia.

In dieci anni tutti i processi di montaggio, smontaggio e rimontaggio della società arricchiscono schiere di consulenti: il costo per l’azienda è di 4,75 miliardi.

L’arrivo di Vivendi

Nell’ottobre 2015 Telefónica scambia parte delle sue quote con la francese Vivendi di Vincent Bolloré, che era socio con una piccola quota, per poi progressivamente acquistare azioni Telecom fino alla quota del 20% aumentando la propria influenza e nel marzo 2016 diventa il maggior azionista con il 24 per cento circa. Alla guida arriva il nuovo Ceo israeliano Amos Genish.

Nasce il gruppo Tim

Nel 2018, Rientra lo Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti, che diventa il secondo azionista con il 9,81% . Luigi Gubitosi diventa Ceo.

Nel 2019 Telecom Italia viene rinominata in Tim.

Cassa depositi e prestiti è in conflitto d’interesse perché ha anche partecipazioni in Open Fiber, concorrente di Telecom sullo sviluppo della rete in fibra.

Con il Conte 1 entra anche il fondo Elliott, un hedge fund squalo non interessato allo sviluppo delle aziende in cui investe, ma a realizzare plusvalenze e vendere, tuttavia gli viene consentito di nominare il consiglio d’amministrazione.

Sta di fatto che il debito azzoppa la società e gli investimenti sulla fibra non vanno avanti.

A fine 2020 il fatturato scende a 15,8 miliardi, gli utili si attestano a 1,3 miliardi di euro, il debito resta fermo a 23,3 miliardi. A ottobre 2021 il titolo precipita al minimo storico: 0,28 euro.

Entra in scena il fondo americano KKR

L’ultimo scontro per il controllo dell’azienda è tra il fondo americano KKR e la francese Vivendi.

La procedura è inusuale: a fine novembre KKR invia una lettera a Tim nella quale manifesta l’interesse all’acquisto per circa 11 miliardi di euro, e indica il valore delle azioni a 0,50 euro.

La lettera viene diffusa, e in Borsa il titolo raddoppia, ma l’offerta nella quale si indica in modo giuridicamente vincolante un prezzo, e da dove arrivano le risorse per l’acquisto, non è stata depositata alla Consob, come prevede il testo unico della finanza.

Però l’Autorità di vigilanza non mette il Fondo alle corde. É legittimo pensare che qualcuno abbia fatto insider trading.