L’imposizione di dazi alle merci prodotte in Europa ed esportate negli Usa poteva essere un’ottima occasione per riflettere sul modello sbilanciato sull’export della nostra economia. Proprio l’accresciuta incertezza dei mercati internazionali e l’ipercompetitività di cui parlò per la prima volta nel 2021 la Von der Leyen, avrebbero consigliato già da tempo di favorire un riequilibrio nel nostro sistema produttivo tra aziende orientate verso l’estero e settori dedicati al mercato interno. Invece, il completo servilismo della classe politica agli interessi della grande industria, ha spinto Meloni e Tajani a programmare un lungo tour per le capitali di mezzo mondo all’affannosa ricerca di mercati da sostituire all’ormai inevitabile ritirata dagli Usa, che diverse aziende nostrane dovranno comunque ingoiare.
Mentre Salvini favoleggia di un rapporto diretto tra Usa ed Italia, per strappare migliori condizioni e mandare in crisi le capacità negoziali della Ue, la Meloni si muove con più prudenza, cercando di rafforzare il ruolo di cerniera tra interessi che sono sempre più in contraddizione tra loro. La sua posizione è quella di una Ue che mantiene la sua unità ma dentro un sistema a sovranità limitata, dove restano gli Usa a guidare le danze.
L’opposizione accusa il governo Meloni di essere subalterno a Trump, ma intanto ha accettato il clamoroso piano di rialzo della partecipazione europea e italiana al bilancio della Nato. Ed ora, sulla vicenda dei dazi, chiede che la Ue adotti misure ritorsive per difendere il sistema produttivo europeo.
Non c’è una sola voce che, dalle fila del governo o dell’opposizione, colga il nesso strutturale tra economia orientata all’export da un lato e bassi salari, aumento delle disuguaglianze e crescente abbandono di zone sempre più ampie di territorio nazionale, dall’altro. Produrre per i mercati esteri ha portato ad individuare nel costo del lavoro un fattore di competitività e pertanto a tenerlo basso, senza preoccuparsi più di tanto della depressione dei consumi interni, dovuta proprio alla decrescita delle retribuzioni. Ma non ci sono solo i salari in gioco, c’è un’attenzione sempre minore per le condizioni di lavoro, con un drammatico accentuarsi dei problemi legati alla sicurezza. Proprio ieri sono stati resi noti i dati sugli incidenti sul lavoro nel Lazio, una delle regioni più fortemente orientate all’export, dove nei soli primi quattro mesi del 2025 si sono sfiorati i 14mila incidenti e 12 morti. E poi ci sono l’incuria del territorio, che moltiplica l’effetto dannoso dei frequenti disastri ambientali, il degrado delle periferie delle grandi città, il ritrarsi dell’amministrazione pubblica dalla gestione dei servizi, a cominciare dalla sanità.
Nel mercato del lavoro questo modello economico sta avendo effetti devastanti. C’è un tessuto di economia povera, orientata per lo più alla ristorazione, al turismo e al tempo libero, dove i salari sono da fame e la contrattazione inesistente, che assorbe un volume crescente di manodopera. L’occupazione cresce, toccando sempre nuovi record, ma è tutto lavoro povero.
I dazi, in un modo o nell’altro, finiranno per produrre i loro effetti negativi sulla nostra economia, non solo in termini di posti di lavoro ma anche di aumento dei prezzi interni. E questo produrrà una nuova pressione su salari e pensioni. Senza un ripensamento del nostro sistema economico, a cominciare dal settore agro-alimentare, e un rilancio della produzione per il mercato interno, la dinamica della concorrenza internazionale è destinata ad aumentare le difficoltà e i problemi che già viviamo.
Essere consapevoli di questo piano inclinato sul quale stiamo scivolando è un primo passo fondamentale per cominciare a reagire.