In molti ricorderanno la storia di Niccolò Daviddi, l’archeologo allontanato dalla società presso cui prestava servizio dopo aver denunciato in un servizio di Agorà su Rai 3 le sue condizioni di lavoro. La vicenda la scorsa estate è stata per giorni al centro dell’attenzione mediatica, nel mezzo del dibattito sul reddito e sulle condizioni occupazionali del nostro Paese.
Nel servizio Niccolò raccontava una situazione generalizzata di compensi al ribasso, sfruttamento e ricattabilità che molti archeologi attivi sui cantieri stradali di Roma – di utilità pubblica visto che afferiscono alla realizzazione di infrastrutture e sottoservizi – conoscono bene. Subito dopo la società archeologica presso cui lavorava lo ha rimosso dal gruppo WhatsApp dove venivano assegnati i cantieri. Senza spiegazioni, senza una comunicazione, senza nemmeno formalizzare l’interruzione del rapporto lavorativo, in quanto Niccolò era un “libero professionista”.
Il virgolettato è dovuto. La società in questione – Archeo Domus Srl, che a Roma gestisce una serie di commesse per conto dei colossi della fibra Open Fiber e Fibercop – oltre a stabilire in maniera unilaterale compensi e condizioni di lavoro, richiedeva ai suoi collaboratori di inoltrare ogni giorno via e-mail un modulo presenze che fungeva da timbro del cartellino, di “indossare la divisa” e di attendere l’autorizzazione della segreteria per poter lasciare il cantiere durante le giornate di pioggia, pena il mancato riconoscimento della giornata lavorativa. I compensi erano bassi: 80€ lordi al giorno, che diventavano 40€ se si lasciava il cantiere entro l’ora di pranzo, rigorosamente a Partita IVA. Inoltre Archeo Domus applicava o minacciava di applicare sanzioni disciplinari a chi non poteva invece essere soggetto ad alcun potere sanzionatorio.
Mercoledì 15 marzo Niccolò Daviddi, assistito da USB e dall’avvocato Bartolo Mancuso – dello staff legale del sindacato – ha avviato una vertenza al Tribunale Civile di Roma, per dimostrare che l’interruzione delle chiamate lavorative da parte di Archeo Domus, dopo la messa in onda del servizio di Agorà, equivale a un licenziamento ritorsivo.
Soprattutto perché Niccolò la Partita IVA ha dovuto aprirla proprio per poter lavorare con Archeo Domus (monocommittente). Non si è trattato di altro che di un modo per nascondere un lavoro subordinato, che come tale dovrebbe essere formalizzato. Questa la tesi presentata in tribunale.
Situazioni di questo tipo, più che di libera professione, ci parlano di uno sdoganato utilizzo nell’archeologia di cantiere di finte Partite IVA che mascherano lavoro subordinato, su cui la parte datoriale scarica tasse e costi senza però l’onere di dover versare contributi, pagare ferie e malattia, accordare congedi e permessi. E si garantisce anche la massima flessibilità: può chiamare o meno il collaboratore a propria discrezione, può estrometterlo dalle commesse senza dare spiegazioni, può interrompere la collaborazione in qualsiasi momento. Non a caso, spesso e volentieri l’apertura della Partita IVA non è frutto di una libera scelta del lavoratore, ponderata sull’effettiva esistenza di un progetto imprenditoriale, ma una condizione imposta da committenze e intermediari (cooperative, società archeologiche, ditte individuali, ecc.) per poter lavorare. L’alto grado di specializzazione della professione lascerebbe presupporre un’adeguata capacità di contrattazione individuale; tuttavia, in molti casi i rapporti di forza sono del tutto sbilanciati in favore della parte datoriale, poiché ci si ritrova ad operare in un regime semi-monopolistico fatto di imprese e microimprese che da anni si spartiscono a ribasso il mercato e hanno reso il settore particolarmente invivibile.
Le finte Partite IVA e le Partite IVA coatte sono fenomeni che non riguardano solo il mondo dell’archeologia: ultimamente affiorano in modo sempre più evidente anche in altri ambiti del professionismo, come ad esempio gli studi di architettura. La difficoltà con cui certe dinamiche vengono a galla non è dovuta solo alla posizione di vulnerabilità in cui molti archeologi si ritrovano: all’interno della categoria vige anche un clima di colpevolizzazione del singolo che scoraggia a parlare. Ma la responsabilità di un sistema atrofizzato e del tutto deregolamentato che per decenni ha alimentato sé stesso non può essere fatta ricadere su chi, trovandosene ai margini, tenta di sopravvivere. I problemi che affliggono il settore devono piuttosto essere affrontati a monte, regolamentando gli appalti e impedendo a committenze e intermediari di propinare compensi inadeguati, rapporti di lavoro irregolari e altri abusi
La Partita IVA non può diventare uno strumento di ribasso del costo del lavoro e di scarico a valle del rischio d’impresa nelle mani della parte datoriale. E la permanenza delle imprese archeologiche nel mercato edilizio non può avvenire a scapito della dignità professionale e retributiva dei propri collaboratori, a prescindere da quanto siano individualmente inclini alla lotta. Nei casi come quello di Niccolò, in cui non sussistano le condizioni effettive per cui si possa parlare di lavoro autonomo (compensi imposti unilateralmente, orari di lavoro etero-organizzati, moduli presenze, applicazione di sanzioni disciplinari, ecc.) pretendiamo il corretto inquadramento del rapporto lavorativo, con il pagamento di differenze retributive e contributive secondo il CCNL di settore.
“Organizzare gli inorganizzabili” è uno dei nostri obiettivi. Perciò siamo al fianco di Niccolò nella vertenza avviata ieri, e di tutti gli archeologi che si trovano in condizioni simili, ma faticano a trovare voce.
Slang USB