Confesercenti, su dati Inps, Istat e Camere di commercio, fotografa un 2024 con età media degli occupati a 44,2 anni, più di due in più rispetto a cinque anni fa; tra il 2004 e il 2024 si contano 1,6 milioni di occupati in più, ma il saldo positivo cela un calo di oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni.
Questo dato porta alla luce un’amara verità: il calo demografico oggi costituisce un’urgenza anche nella dinamica salariale, dove l’aumento dell’età media incide sulla produttività.
L’ufficio parlamentare di bilancio ha evidenziato che da un lato il restringimento della popolazione attiva peserà in termini quantitativi sull’offerta di lavoro disponibile, dall’altro l’invecchiamento della popolazione avrà importanti ripercussioni sulla qualità di tale offerta, soprattutto sui livelli di produttività del lavoro e sul ruolo dell’automazione.[1]
Non è però unicamente l’andamento demografico a incidere. Le ragioni per cui l’occupazione è calata in modo così drastico nelle fasce più giovani della popolazione riguarda la qualità del lavoro e delle retribuzioni che sono basse; questa condizione si genera non solo, come dice Confesercenti, a causa dei contratti pirata ma anche e soprattutto a causa di contratti poveri e rappresentativi (siglati da CGIL CISL E UIL) che impongono paghe da fame.
I giovani e le giovani di questo paese non hanno più intenzione di farsi sfruttare in settori a basso valore aggiunto che condannano a vite precarie e non danno alcuna garanzia, ne occupazionale ne economica.
Abbiamo assistito con sdegno all’ennesima autocelebrazione di Meloni e governo, istituti statistici e media al servizio, che esultano per l’aumento dell’occupazione e dei contratti a tempo indeterminato. Scavando appena sotto la superficie però, emerge che non si tratta di una vittoria per i lavoratori e le lavoratrici, ma di una condanna a tempo indeterminato alla precarietà salariale.
L’aumento dell’“occupazione stabile” sbandierato dai palazzi è in realtà un inganno: si moltiplicano i contratti part-time non per scelta dei lavoratori, ma imposti da un mercato del lavoro piegato alla logica del massimo profitto e del minimo salario. Sono lavori sottopagati, frammentati, senza prospettive né diritti reali. In molti casi, il tempo indeterminato non garantisce affatto la sicurezza economica, ma diventa solo un’etichetta vuota da aggiungersi per esempio ai continui cambi appalto.
Quella che ci raccontano come stabilizzazione è, nei fatti, una stabilizzazione della povertà. Una precarietà mascherata che impedisce l’autonomia, svuota la vita delle persone, blocca i progetti familiari e condanna intere generazioni a sopravvivere con meno del minimo con contratti che sarebbero insufficienti anche con orari full time.
Nel nostro Paese oltre il 56,2% dei lavoratori part-time ha dichiarato di non aver scelto volontariamente questa modalità di impiego. In particolare, tra le donne, i migranti e nei settori a bassa contrattazione collettiva – come il commercio, i servizi, la logistica e il turismo – il part-time viene spesso imposto come unica condizione per essere assunti. Si tratta di un vero e proprio abuso strutturale, che consente alle aziende di risparmiare sul costo del lavoro, frammentare l’orario e scaricare sui lavoratori il peso della flessibilità. È una distorsione del modello occupazionale, che invece di valorizzare il lavoro stabile e pieno, ne sancisce la definitiva precarizzazione
Per USB, questa non è occupazione: è sfruttamento normalizzato. Il vero lavoro dignitoso non può prescindere da un salario minimo, un orario pieno, e pieni diritti. E finché non si affrontano con coraggio il ricatto del part-time involontario, i salari da fame e la deregolamentazione selvaggia, non possiamo aspettarci che l’occupazione giovanile riprenda.
USB Federazione del Sociale – Slang